Giurisprudenza

Ai fini dell’accertamento dell’assegno divorzile rileva la situazione patrimoniale all’epoca della pronuncia di divorzio – Sentenza n. 24436 del 21 novembre 2011

Ente Giudicante: Corte di Cassazione
Procedimento: Sentenza n. 24436 del 21 novembre 2011

Ai fini dell’accertamento dell’assegno divorzile rileva la situazione patrimoniale all’epoca della pronuncia di divorzio

Da un miliardo di lire ad appena 1.168 euro: un crollo verticale nei redditi percepiti. E in appena cinque anni. Eppure, restano intatte le partecipazioni in diverse società, e, per giunta, frequentazioni nel mondo imprenditoriale. Ecco perché la ‘supremazia’ economica dell’ex marito sulla ex moglie – con reddito da lavoro dipendente pari ‘solo’ a 42mila euro all’anno – non può essere messa in discussione, così come è acclarato il contributo dato dalla donna, in oltre venti anni di matrimonio, alla capacità patrimoniale dell’uomo.

Di conseguenza, ogni discussione è superflua e – come da sentenza della Cassazione, numero 24436, prima sezione civile, depositata il 21 novembre 2011 – il diritto all’assegno di mantenimento, a favore dell’ex moglie (e della figlia), deve essere ritenuto legittimo.

Il pomo della discordia è, come spesso succede, l’assegno di mantenimento, che il Tribunale prima e la Corte d’Appello poi hanno stabilito a carico dell’ex marito. A pesare, in questa decisione, le differenti condizioni economiche degli ex coniugi, oltre alle condizioni di salute della figlia. Per l’uomo, però, il carico è troppo gravoso. Così, sceglie di presentare ricorso in Cassazione, contestando la valutazione in Appello sulla «disparità economica», valutazione effettuata «senza considerare che i redditi valutati, da lui dichiarati, si riferivano a periodo successivo alla cessazione della convivenza, e senza altresì tener conto dell’omessa acquisizione della prova», a carico della ex moglie, «del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio», e, per giunta, disattendendo «la regolamentazione concordata dei rapporti patrimoniali intervenuta in sede di separazione, che prevedeva rinuncia all’assegno di mantenimento» da parte della donna.

In questa ottica, peraltro, sempre secondo l’ex marito, si colloca anche la valutazione, mancata in Appello, del «contributo» dato dall’ex moglie «alla formazione del patrimonio dell’altro coniuge», patrimonio che, valutato dai giudici, si riferisce «a periodi successivi alla cessazione della convivenza».

Eppure, la posizione dei giudici della Cassazione non è recettiva. Anzi, viene considerata pienamente legittima la ricostruzione portata avanti in Appello, ovvero «la comparazione tra le condizioni economiche dei coniugi» e la relativa «notevole disparità». Difatti, nonostante il ‘crollo’ economico dichiarato dall’uomo – da un miliardo di lire a 1.168 euro in cinque anni –, «la sua capacità reddituale non poteva ritenersi azzerata, continuando egli ad avere partecipazioni in diverse società e frequentazioni nel mondo imprenditoriale», mentre, dall’altro lato, l’ex moglie «percepiva reddito da lavoro dipendente nell’importo di 42mila euro annui». Secondo gli Ermellini, inoltre, «data la ventennale convivenza matrimoniale», l’ex moglie «aveva sicuramente contribuito allo sviluppo della capacità patrimoniale del coniuge», e ciò giustificava «tanto l’obbligo contributivo» posto a carico dell’uomo quanto «la misura degli assegni». Infine, per chiudere il cerchio, evidente, per i giudici, «l’inadeguatezza della condizione economica» della donna «a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio», alla luce della «situazione attuale» e di «quella della famiglia, desunta dalle condizioni economiche emerse dalle rispettive dichiarazioni fiscali, sue e del coniuge, ed in particolare di quest’ultimo, risultato percettore di elevato reddito che, seppur maturato dopo la cessazione della convivenza, il giudice del merito ha comunque logicamente ritenuto sviluppo naturale prevedibile della medesima attività, pacificamente svolta durante il matrimonio».

Alla luce di questo quadro, i giudici di Piazza Cavour hanno rigettato il ricorso presentato dall’ex marito confermando la pronuncia d’Appello in materia di assegno di mantenimento a favore dell’ex moglie e della figlia.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I CIVILE

Sentenza 20 ottobre – 21 novembre 2011, n. 24436

(Presidente Luccioli – Relatore Cultrera)

Svolgimento del processo

La Corte d’appello di Bologna, con sentenza n. 296 depositata il 26 febbraio 2007, respinto l’appello proposto da S. P. avverso precedente decisione del Tribunale di Parma, ne ha confermato la condanna al pagamento dell’assegno di mantenimento in favore della moglie divorziata F. A. M. in € 1.000,00 mensili ed in favore della figlia F. in € 2.600,00 mensili. Avverso questa decisione S. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi cui ha resistito l’intimata con controricorso, ed illustrato altresì con memoria difensiva depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.

Il collegio ha disposto farsi luogo a motivazione semplificata.

Motivi della decisione

Il ricorrente denuncia col primo motivo violazione dell’art. 5 legge n. 898/1970 e dell’art. 2729 c.c. Ascrive alla Corte distrettuale errore di diritto per aver desunto l’asserita disparità economica tra le sue condizioni e quelle della moglie divorziata su base non attuale, senza considerare che i redditi valutati da lui dichiarati, relativi agli anni 2000, si riferivano a periodo successivo alla cessazione della convivenza, intervenuta nel 1991, e senza altresì tener conto dell’omessa acquisizione della prova, di cui era onerata la F., del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, disattendendo, oltretutto, l’unico elemento istruttorio versato in atti, rappresentato dalla regolamentazione dei rapporti patrimoniali intervenuta in sede di separazione, che prevedeva rinuncia all’assegno di mantenimento da parte della F.

Il conclusivo quesito di diritto chiede se risulti violato il disposto dell’art. 5 della legge n. 878/1970 ove il coniuge richiedente l’assegno in sede di divorzio non adempia all’onere di provare, né il pregresso tenore di vita, né quale sia stato il suo contributo alla formazione del patrimonio dell’altro coniuge nell’ipotesi in cui i redditi da questo percepiti, valutati dal giudice, si riferiscono a periodi successivi alla cessazione della convivenza.

La resistente deduce l’inammissibilità del motivo e comunque la sua infondatezza.

La censura è priva di pregio.

Secondo quanto riscontrato dalla Corte del merito, la comparazione tra le condizioni economiche dei coniugi emergenti dagli atti acquisiti ne evidenzia la notevole disparità. Il S. aveva dichiarato nel 2011 un reddito di oltre un miliardo di lire, diminuito nell’anno successivo a circa quattrocento milioni, presumibilmente rimasto invariato negli anni a seguire, e benché la dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2005 indicasse l’ importo annuo di € 1.168, 00, la sua capacità di reddito non poteva ritenersi azzerata, continuando egli ad avere partecipazioni in diverse società e frequentazioni nel mondo imprenditoriale. Di contro la F. percepiva reddito da lavoro dipendente dell’importo di € 4.000,00 annui e, data la ventennale convivenza matrimoniale, aveva sicuramente contribuito allo sviluppo della capacità patrimoniale del coniuge.

Ciò giustificava tanto l’obbligo contributivo posto a carico del S. che la misura degli assegni stabilita in prima istanza.

Sicuramente corretto è il riferimento operato dal giudice del merito all’epoca non già della cessazione della convivenza, bensì della pronuncia di divorzio, ai fini dell’accertamento dell’esistenza del diritto all’assegno di divorzio nonché della sua quantificazione, in quanto conforme a consolidato orientamento – Cass. n. 20582/2010 – in questa sede condiviso e riaffermato, che, in logica coerenza, attribuisce altresì all’assetto economico stabilito nelle condizioni della separazione un valore meramente sintomatico e perciò non decisivo – Cass. n. 22500/2006.

Parimenti corretto è l’accertamento dell’inadeguatezza della condizione economica della F. a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, condotto esaminando comparativamente la sua situazione attuale e quella della famiglia, desunta dalle condizioni economiche emerse dalle rispettive dichiarazioni fiscali, sue e del coniuge, ed in particolare di quest’ultimo, risultato percettore di elevato reddito che, seppur maturato dopo la cessazione della convivenza, il giudice di merito ha comunque logicamente ritenuto sviluppo naturale prevedibile della medesima attività, pacificamente svolta durante il matrimonio. L’apprezzamento nel merito delle risultanze del complessivo compendio istruttorio che, come rilevato, è stato assunto regolarmente a fonte di convincimento da parte dell’organo giudicante, non è per di più sindacabile in questa sede. Per questo complesso di ragioni, il motivo merita pertanto il rigetto.

Col secondo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione in relazione alla circostanza di fatto rappresentata dal quasi totale azzeramento del suo reddito attuale. Incontroversa la dismissione dagli incarichi e dalle sue partecipazioni nella società DS DATA SYSTEM, il giudice del gravame avrebbe sbrigativamente ed illogicamente disatteso il dato fiscale relativo al reddito percepito nell’anno 2005, da cui sarebbe emersa la perdita pressoché totale di ogni fonte di guadagno.

La resistente deduce l’infondatezza del motivo.

Il motivo è inammissibile.

La deduzione del vizio d’insufficiente motivazione su punto essenziale della controversia deve essere accompagnata, secondo quanto prescritto dall’art. 366 bis c.p.c., dal prescritto momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) contenente la chiara illustrazione del fatto in relazione al quale la motivazione si assume inidonea (Cass. S. U. 20603/2007), che è assolutamente assente nell’articolazione nonché nella conclusione del motivo esaminato.

Analoga sorte merita il terzo motivo, con cui il ricorrente denuncia violazione dell’art. 6 legge n. 898/1970 in relazione alla determinazione della misura dell’assegno di mantenimento per la figlia F., raddoppiato rispetto all’importo stabilito in sede di separazione in € 2.600,00 ma per i due figli, attribuito invece dal giudice del merito per l’intero alla ragazza, avendo il fratello raggiunto una condizione d’indipendenza economica.

Il quesito di diritto chiede se sia corretta tale statuizione per il solo fatto che è cessato l’obbligo di mantenimento per l’altro figlio.

La resistente deduce l’infondatezza del motivo.

Premesso che la decisione assunta dal giudice d’appello trova adeguata ed esaustiva giustificazione nelle ragioni illustrate a sostegno, riconducibili alle gravi condizioni di salute della ragazza, affetta da seria patologia che impone cure mediche ed assistenza con conseguente dispendio economico e che la censura mira alla critica nel merito dell’apprezzamento condotto sui fatti vagliati dal giudice d’appello, che, logicamente ed adeguatamente motivato, si sottrae al richiesto sindacato, va rilevato che il quesito non assolve alla funzione di sollecitazione, in chiave di interrogativo, circa la soluzione giuridica appropriata alla specie. Chiede infatti d’accertare la denunciata violazione di legge asseritamente consumata dal giudice d’appello, ed è perciò assolutamente inidoneo a dare impulso alla funzione nomofilattica riservata a questa Corte, tipicamente attribuita alla sua formulazione, che ne giustifica la ratio sì da circoscrivere la pronuncia del giudice di legittimità nei limiti di un accoglimento o di un rigetto del quesito formulato (Cass. S.U. 20603/2007).

Col quarto motivo il ricorrente denuncia ancora una volta il vizio di motivazione, riconducibile al ragionamento logico che sorregge la determinazione dell’assegno per la figlia, e coltiva censure in tutto analoga a quella articolata col secondo mezzo, di cui deve condividere la sorte. Analogamente, infatti difetta del prescritto momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) contenente la chiara illustrazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume inidonea (Cass. S.U. 20603/2007).

Tutto ciò premesso, il ricorso deve essere rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte: rigetta il ricorso e condanna il pagamento delle spese del presente giudizio, liquidandole in € 4.200,00, di cui € 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.