Giurisprudenza

Malattia, visite fiscali ed obbligo di reperibilità: quando l’assenza dal domicilio diventa giusta causa per il licenziamento – Sentenza n. 2003 del 13 febbraio 2012

Ente Giudicante: Corte di Cassazione
Procedimento: Sentenza n. 2003 del 13 febbraio 2012

Malattia, visite fiscali ed obbligo di reperibilità: quando l’assenza dal domicilio diventa giusta causa per il licenziamento

Secondo la Corte di Cassazione (sent. 2003 del 13 febbraio 2012), il datore di lavoro è legittimato a licenziare il proprio dipendente assente dal lavoro per malattia, che non si renda reperibile durante le visite mediche di controllo e che continui a far pervenire certificati successivi al termine indicato all’origine della condizione di impossibilità a recarsi al lavoro a causa di una infermità provvisoriamente inabilitante.

Con lo stesso parere, nel caso sottoposto alla Cassazione, si erano espressi sia il Giudice monocratico che la Corte d’Appello che avevano così respinto la domanda del lavoratore interessato ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento operato dal datore di lavoro.

A giudizio della Suprema Corte, il lavoratore con il suo comportamento ha dimostrato “pervicace volontà intenzionalmente mirata a pregiudicare” l’interesse del datore di lavoro “ad esser posto in condizione di effettuare un’adeguata verifica dello stato di malattia del dipendente assente”. Fatto che viene riconosciuto tale da incrinare il vincolo fiduciario instaurato tra le parti con l’assunzione e che è venuto meno sia per il reiterarsi, in breve tempo, del comportamento del lavoratore che non si è fatto trovare in casa per i controlli sanitari, sia per il fatto che l’interessato non è riuscito a opporre valide giustificazioni del suo comportamento.

In generale, “per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e in particolare di quello fiduciario, occorre valutare la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva del medesimo, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità dell’elemento intenzionale nonché la proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare (Cassazione, Sent. 21437/2011).

Sempre in tema di visite fiscali ed obbligo di reperibilità va tuttavia segnalata una sentenza della corte di Cassazione del 2008 (n. 1942/90) con la quale è stato affermato come una volta ricevuta la visita fiscale che conferma la prognosi il lavoratore non è più soggetto alle fasce di reperibilità in quanto “già controllato”.

Ulteriori richieste di visite da parte dei datori di lavoro configurano il reato di vessazione con conseguente risarcibilità del danno causato al lavoratore dalla richiesta da parte del datore di lavoro di continue visite domiciliari, che ignorano l’esito di precedenti controlli che confermano la persistenza della malattia e che configurano un intento persecutorio suscettibile di causare addirittura un aggravamento della malattia del dipendente. Il caso nella fattispecie riguardava un lavoratore che era uscito dopo la visita fiscale e che era stato sanzionato dall’Inps, che riteneva di avere diritto a disporre un ulteriore controllo medico dopo la prima visita fiscale. Secondo l’ente previdenziale, infatti, il lavoratore in malattia, anche se debitamente accertata da un medico di controllo, sarebbe tenuto per tutta la durata della malattia stessa a rispettare le fasce orarie di reperibilità per consentire accertamenti sul permanere delle sue condizioni patologiche.

Tesi, questa, che è stata rigettata totalmente dalla Corte di cassazione che, per contro, ha affermato la piena facoltà del lavoratore assente per malattia di poter disporre liberamente del proprio diritto alla «locomozione». A patto che il medico fiscale abbia già visitato l’interessato. Secondo i magistrati superiori, «la limitazione alla libertà di locomozione imposta dal regime delle cosiddette fasce orarie di reperibilità» assume carattere eccezionale. E quindi, una volta accertato lo stato di salute (e cioè la malattia del lavoratore), la persistenza dell’obbligo si tradurrebbe in una imposizione di un riposo orario forzato quotidiano, che potrebbe addirittura non essere compatibile o comunque non avrebbe ragione riguardo a determinate forme patologiche la cui terapia potrebbe richiedere, per esempio, l’allontanamento dal luogo abituale di residenza per località più consone alle condizioni patologiche del soggetto (si pensi ai casi di asma allergica). La limitazione potrebbe incidere cioè sui criteri e i metodi di cura della malattia i tempi e i luoghi di essa. La Corte ha sottolineato, inoltre, che il legislatore ha inteso rendere meno gravose le limitazioni delle fasce orarie di reperibilità, disponendo che il servizio di controllo dello stato di malattia e gli accertamenti preliminari al controllo stesso siano fatte nel più breve tempo possibile, nello stesso giorno, anche se domenicale o festivo. Secondo la Suprema corte, dunque, è evidente che il legislatore non ha voluto tutelare soltanto l’interesse del datore di lavoro al pronto accertamento della malattia, ma ha tenuto conto che non sempre uno stato morboso, che pur non rende idoneo il prestatore d’opera a determinati lavori, comporta necessariamente, per tutto il corso della malattia che egli rimanga nel suo domicilio o non svolga altre attività. Pertanto «accertato da competenti organi tecnici lo stato di malattia e formulato un giudizio prognostico», si legge nel provvedimento, «il legislatore non poteva strutturare un meccanismo restrittivo estendendolo ad ipotesi successive assolutamente eventuali fondate sul sospetto di un errore diagnostico valutativo da parte del medico che abbia effettuato il controllo o di un comportamento simulatorio o fraudolento del lavoratore».

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROSELLI Federico – Presidente
Dott. STILE Paolo – Consigliere
Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere
Dott. BRONZINI Giuseppe – rel. Consigliere
Dott. Meliadò Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PIEMONTE 39/A, presso lo studio dell’avvocato TOMASELLI EDMONDO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

T.N.T. GLOBAL EXPRESS S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANASTASIO II 416, presso lo studio dell’avvocato RADICIONI STEFANO, rappresentata e difesa dall’avvocato CIVITELLI TOMMASO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4347/2008 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 09/01/2009 R.G.N. 2231/07;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/12/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE BRONZINI;

udito l’Avvocato MURANO GIULIO per delega TOMASELLI EDMONDO;

udito l’Avvocato RADICIONI STEFANO per delega CIVITELLI TOMMASO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

S.M. impugnava il licenziamento per giusta causa intimatogli dal datore di lavoro TNT Global express spa chiedendo la dichiarazione di illegittimità dello stesso con le conseguenze risarcitorie di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18 nonché con il risarcimento del danno biologico, morale ed esistenziale derivato dalla condotta mobbizzante del datore di lavoro. La TNT contestava la fondatezza delle domande di cui chiedeva il rigetto.

Il Tribunale del lavoro di Roma rigettava la domanda; interponeva appello il S. allegando la violazione del principio di immediatezza della contestazione, la mancanza di giusta causa, la natura ritorsiva del recesso intimato in ragione della sua nomina a membro del Coordinamento regionale FIT Cisl, la mancata valutazione del demansionamento subito e della condotta illegittima datoriale.

La Corte di appello di Roma con sentenza del 27 maggio 2008 rigettava la domanda. Circa il primo punto la Corte territoriale rilevava che la contestazione del 16.7.2003 contemplava una serie di fatti avvenuti in un breve contesto temporale dal (OMISSIS), e tutti riguardanti o l’invio di certificati medici oltre il termine previsto o l’assenza a visite domiciliari di controllo o l’assenza visite disposte dall’INPS, espressione di un medesimo atteggiamento psicologico di contrasto del potere datoriale di controllare l’assenza del dipendente per malattia.

Circa la sussistenza della giusta causa la Corte osservava che non era contestato l’invio tardivo di certificati, la mancata presentazione alla visita di controllo nella data indicata dall’INPS, le ripetute assenze alle visite di controllo per le assenze di malattia. Stante la reiterazione dei fatti in un breve arco di tempo e l’assenza di credibili giustificazioni, il comportamento tenuto, visto nel suo complesso, era di gravità tale da ledere il vincolo fiduciario.

Non era stato, inoltre, supportato con “un adeguato impianto allegatorio” il dedotto demansionamento, non essendo stato neppure operato un confronto tra mansioni svolte da ultimo di “addetto alle partenze” e quelle precedentemente di “responsabile recupero crediti”.

Ricorre il S. con due motivi; resiste controparte con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo si allega l’omessa e/o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. La contestazione non era tempestiva; inoltre il ritardo nell’invio dei certificati era minimo e la società datrice non aveva subito alcun danno. La giusta causa non era stata dimostrata. La società aveva contestato la falsità dei certificati, contestazione poi caduta che avrebbe dovuto far ritenere la sproporzionatezza della sanzione. L’art. 32 CCNL prevede solo la sanzione della multa per i ritardi al lavoro o la violazione delle norme per il controllo delle assenze.

Il ricorso presenta vari profili di inammissibilità e comunque appare infondato nel merito.

In primo luogo va osservato che, pur essendo stata la sentenza impugnata pubblicata il 9.1.2009, non è stato formulato il cosiddetto quesito riassuntivo ex art. 366 bis c.p.c. (“chiara indicazione del fatto controverso, in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione”), previsto dalla norma “a pena di inammissibilità”. Inoltre il CCNL, richiamato in vari passaggi del motivo, non è stato prodotto in copia integrale, né si è indicato con chiarezza l’incarto processuale ove il CCNL sia in ipotesi reperibile (cfr. da ultimo cass. – sez. un.- n. 22726/2011), non essendo sufficiente la mera trascrizione di alcune norme contrattuali (cfr. cass. n. 14595/2009) nel corpo del ricorso.

In ogni caso la Corte di appello ha già valutato con motivazione congrua e logicamente coerente la tempestività della contestazione che ha riguardato plurimi fatti collegabili tra di loro essendo gli stessi manifestazione di una medesima volontà di sottrarsi da parte del dipendente al potere di controllo sulle assenze de datore di lavoro o degli Enti deputati a tali controlli, svoltisi dal (OMISSIS). La lettera di contestazione è del 16 Luglio e certamente appare emessa a brevissima distanza dai fatti, previa valutazione della globalità ed unitarietà del comportamento tenuto dal ricorrente e comunque (ha accertato la sentenza impugnata) entro 15 gg. dall’ultimo degli episodi contestati, come previsto dalla normativa contrattuale. La Corte di appello ha peraltro esaminato specificamente le inadempienze contestate al ricorrente ed acclarate in corso di giudizio, dall’invio con ritardo dei certificati medici, alla mancata presenza nel domicilio in occasione delle visite fiscali in tre giorni diversi, alla mancata presentazione alla visita di controllo nella data indicata dall’INPS. Posto che è pacifico, come già osservato nella sentenza impugnata, che secondo la giurisprudenza di questa Corte (cass. n. 6668/2004, cass. n. 6454/2006; cass. n. 19329/2007) il Giudice di merito deve valutare i fatti addebitati e posti a base di un recesso per giusta causa nella loro unitarietà (e non partitamente riconducendoli alle singole fattispecie contrattuali) onde valutare se gli stessi siano nel loro complesso idonei a ledere il vincolo fiduciario tra le parti, la Corte territoriale ha concluso nel senso che il comportamento complessivamente tenuto dal ricorrente dimostrava la sua pervicace volontà intenzionalmente mirata a pregiudicare l’interesse datoriale ad esser posto in condizione di effettuare un’adeguata verifica dello stato di malattia del dipendente assente” e quindi idoneo ad incrinare il vincolo fiduciario. La motivazione, come già accennato, appare persuasiva e coerente con i dati processuali; le doglianze circa le sanzioni previste dal CCNL per i ritardi nella trasmissione della documentazione medica o per l’assenza nelle visite di controllo (a parte la questione della mancata produzione del CCNL) appaiono inconferenti in quanto è stato contestato un complesso unitario di inadempienze e violazioni disciplinari che va esaminato nel suo insieme e nella sua globalità. Il giudizio della Corte di appello, fondato sulla reiterazione, a breve distanza di tempo, delle violazioni e del loro comune intento, appare quindi immune da vizi di natura logico-argomentativa e saldamente agganciato ai dati processuali.

Con il secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 CCNL: alla luce delle disposizioni contrattuali sul licenziamento per giusta causa i fatti addebitati non erano puniti con sanzioni di carattere espulsivo.

Sul motivo si è già detto supra. Anche a voler prescindere dalla mancata produzione del CCNL già segnalata (o anche dall’indicazione dell’incarto processuale ove si possa trovare in ipotesi il detto contratto in versione integrale), il motivo si fonda sulla tesi per cui le violazioni contestate unitariamente al ricorrente debbano essere guardate atomisticamente e ricondotte, una per una, alle singole fattispecie previste da clausole contrattuali, il che va escluso per quanto prima osservato (cfr. cass. 6454/2006, cass. 19329/2007). Le plurime violazioni poste in essere dal ricorrente in brevissimo arco temporale sono state unitariamente contestate ed unitariamente valutate. La Corte di appello con motivazione congrua e logicamente coerente ha valutato il comportamento tenuto dal ricorrente di tale gravità da ledere il vincolo fiduciario tra le parti; il giudizio espresso dalla Corte appare dettagliatamente motivato, con specifico riferimento agli elementi emersi a carico del ricorrente. Si tratta di un accertamento di merito, cui il secondo motivo finisce con il muovere censure non pertinenti perché relative ad una atomistica e separata considerazione delle contestazioni mosse al ricorrente che non può esser condivisa per le ragioni prima ricordate.

Va quindi rigettato il ricorso. Le spese di lite del giudizio di legittimità, in favore della parte intimata, seguono la soccombenza e vanno liquidate come al dispositivo della sentenza.

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 40,00 per esborsi, nonché in Euro 2.500,00 per onorari di avvocato, oltre IVA, CPA e spese generali.