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Le responsabilità dell’amministratore di condominio in materia fiscale

Parte Prima

INTRODUZIONE

Sia la legge 4/2013 sia l’art. 71 disp. att. c.c. dispongono che per svolgere l’attività di amministratore di condominio è obbligatorio aver frequentato un corso di formazione iniziale e, successivamente, corsi di aggiornamento, con periodicità annuale, in materia di amministrazione condominiale, al fine di garantire elevati standard di prestazione professionale.

Dal tenore di quest’ultimo articolo si deve ritenere che anche i professionisti iscritti in ordini, quali gli avvocati, gli ingegneri, i dottori commercialisti e così via, siano obbligati a frequentare i corsi de quibus, trattandosi di materia specialistica e nulla prevedendo la norma in senso contrario, avvalorata, questa tesi, dal successivo d. m. 13 agosto 2014, n. 140.

Contrariamente a quanto sopra dedotto in merito alla decadenza de iure dall’incarico di amministratore, nulla è stato previsto nell’ipotesi non abbia frequentato il corso di formazione o non si aggiorni costantemente; si deve ritenere che l’amministratore possa essere revocato, per grave inadempienza, dall’assemblea o dall’Autorità giudiziaria, in quanto l’elenco delle ipotesi di revoca previste dall’art. 1129 cod. civ., non è tassativo, per esplicita previsione della lettera dello stesso articolo.

Del resto, si deve rilevare che sovente la legge n. 4/2013 richiama espressamente, unitamente all’adozione di un codice deontologico da parte delle Associazioni di categoria, che evidentemente, devono prevedere il conseguimento di crediti formativi per la conservazione della qualifica di associato, l’obbligo di aggiornamento professionale, conferendo a questo adempimento, da parte dell’amministratore, particolare rilevanza concernente la trasparenza e la professionalità culturale dell’attività svolta.

Queste due prescrizioni sono analoghe a quelle dettate per i professionisti iscritti in ordini e collegi. Così, ad esempio, la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense (l. 31 dicembre 2012, n. 247), coeva alle leggi 220/2012 e 4/2013, prevede che:

  1. a) nell’interesse pubblico della collettività e della clientela sia assicurata la idoneità professionale degli iscritti (art. 1);
  2. b) gli iscritti debbano osservare le regole deontologiche (artt. 2 e 3);
  3. c) la professione deve essere esercitata con indipendenza, diligenza e competenza (art. 3);
  4. d) ogni iscritto deve provvedere all’aggiornamento periodico.

Tutte le norme, sopra citate, del resto, sono conformi ai livelli di qualifica professionale previsti dall’art. 11 della Direttiva 7 settembre 2005, n. 2005/36/CE recepita in Italia con la legge 6 febbraio 2007, n. 13 e il successivo d.lgs. 9 novembre 2007, n. 206.

Considerato il coacervo di disposizioni normative europee e nazionali, l’amministratore di condominio deve sempre più essere specificatamente qualificato e, soprattutto, dimostrare, anche documentalmente, la sua professionalità e, quindi, la sua conoscenza culturale e tecnica della materia condominiale latu sensu intesa.

La L. 11.12.2012 n. 220 (pubblicata nella G.U. n. 293 del 17.12.2012), in vigore dal 18.6.2013, introduce una serie di importanti modifiche alla disciplina del condominio, intervenendo sulla relativa regolamentazione contenuta nel Codice civile e nelle relative Disposizioni attuative.

In particolare alla figura dell’amministratore vengono apportate alcune modifiche per quanto riguarda la sua nomina ed i correlati requisiti, la sua revoca e gli obblighi connessi al suo incarico.

La riforma è soprattutto intervenuta sui poteri dell’amministratore che, attraverso la modifica dell’art. 1130 c.c., ricevono ora una disciplina di maggior dettaglio.

Il condominio è un istituto che nel corso degli anni ha subito una continua evoluzione, dettata dalla copiosa attività giurisprudenziale e dal proliferare di numerose leggi speciali. In questo contesto, di questioni tradizionali e di problemi nuovi, l’amministratore deve essere un soggetto altamente qualificato e dotato di idonea organizzazione per far fronte alle sue responsabilità. Sullo stesso grava, senza soluzione di continuità, l’obbligo di vigilare sulle parti comuni che gli impone di osservare tutte le misure idonee a prevenire i rischi e a tutelare l’incolumità della collettività condominiale e non.

Si tratta, in particolare, di adottare le misure di sicurezza antincendio, concernenti gli impianti e le installazioni esistenti, nonché di affidare specifiche mansioni a ditte esterne (pulizia scale, giardino ecc.) o lavori di manutenzione, migliorie o adeguamenti normativi che comportino l’esecuzione di opere edili o impiantistiche.

L’omissione di tali comportamenti potrebbe, per l’esistenza della posizione di garanzia, comportarne una responsabilità non solo civile per l’inadempimento degli obblighi contrattualmente assunti ma anche penale. Allo stesso modo si potrebbe configurare una responsabilità in materia tributaria o previdenziale, ove gestisca condomini caratterizzati dalla presenza di lavoratori dipendenti o dalla percezione di reddito imponibile.

In ragione dell’importanza del ruolo e dei numerosi e complessi compiti che l’amministratore deve adempiere, analizziamo nel dettaglio per quel che in questa sede interessa la responsabilità dell’amministratore di condominio in materia fiscale, offrendo un aggiornamento normativo e giurisprudenziale in grado di fornire uno strumento indispensabile e accessibile a tutti gli operatori del settore.

  1. ASPETTI FISCALI E CONTRIBUTIVI DELL’AMMINISTRATORE CONDOMINIALE

Dopo aver inquadrato, sommariamente, la disciplina civilistica dell’amministratore condominiale, è bene passare ad analizzare gli aspetti fiscali inerenti al condominio e la sua amministrazione, nucleo centrale della trattazione che in questa sede interessa.

Partendo dal compenso percepito dall’Amministratore condominiale, anche riferito all’unico condominio gestito, questo deve essere, logicamente, assoggettato ad IRPEF, al contributo previdenziale e ad eventuale IVA.

  1. IRPEF

Ai fini delle imposte sui redditi, infatti, è determinante per la configurazione del reddito conseguito dall’amministratore valutare il suo corretto inquadramento.

Brevemente, l’attività dell’amministratore condominiale può essere, a seconda dell’esistenza o meno di determinati presupposti, considerata come:

– “esercizio abituale di attività di lavoro autonomo“, se l’amministratore compie in maniera sistematica e abituale tale attività, assoggettando il reddito da essa proveniente a reddito da lavoro autonomo;

– “esercizio d’impresa”, se l’attività è svolta sotto forma di impresa ed il reddito scaturente sarà quello d’impresa (attribuzione dell’incarico di amministratore ad una società di persone o di capitali).

La tassazione IRPEF, pertanto, varierà a seconda che il reddito prodotto sia reddito da lavoro autonomo, reddito di impresa oppure rientri nella categoria dei redditi diversi.

  1. IVA

Il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 disciplina l’imposta sul valore aggiunto, stabilendo che le cessioni di beni e le prestazioni di servizi sono operazioni rilevanti, ai fini dell’imponibilità dell’IVA.

L’art. 5, 1° comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, stabilisce che “Per esercizio di arti e professioni si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di qualsiasi attività di lavoro autonomo da parte di persone fisiche ovvero da parte di società semplici o di associazioni senza personalità giuridica costituite tra persone fisiche per l’esercizio in forma associata delle attività stesse…. Non si considerano effettuate nell’esercizio di arti e professioni le prestazioni di servizi inerenti ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 49, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 nonché le prestazioni di lavoro effettuate dagli associati nell’ambito dei contratti di associazione in partecipazione di cui all’articolo 49, comma 2, lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 rese da soggetti che non esercitano per professione abituale altre attività di lavoro autonomo. Non si considerano altresì effettuate nell’esercizio di arti e professioni le prestazioni di servizi derivanti dall’attività di levata dei protesti esercitata dai segretari comunali ai sensi della L. 12 giugno 1973, n. 349, nonché le prestazioni di vigilanza e custodia rese da guardie giurate di cui al R.D.L. 26 settembre 1935, n. 1952.”

Da ciò discende che l’attività di amministratore non sempre è rilevante ai fini IVA.

La Cassazione civile, con sentenza n. 6671 del 24/07/96, si è pronunciata per la prima volta in merito all’assoggettabilità all’IVA dei compensi derivanti dall’attività di amministratore condominiale, stabilendo che: “quando un soggetto si occupi dell’amministrazione di una pluralità di condomini con elevato numero di partecipanti non è pensabile che l’attività venga espletata senza professionalità e senza l’impiego di mezzi organizzati, quali calcolatrici, fotocopiatrici, schedari, computers, ecc.”

L’elemento discriminante per concretizzare l’esercizio abituale di attività di lavoro autonomo, soggetto alla disciplina IVA, è stato quindi indicato nel generico utilizzo di mezzi organizzati.

A riguardo, anche la giurisprudenza di merito e precisamente, la Commissione Tributaria regionale del Lazio, sezione 47, nella sentenza 30/11/1998, ha aderito a siffatto orientamento. La pronuncia della C.T.R. laziale ha cercato di definire la natura del rapporto tra condominio ed amministratore, stabilendo che non è ravvisabile in una collaborazione bensì in un incarico professionale, e l’impegno profuso da questi, stante il numero di condomini, è indipendente dall’effettivo reperimento delle attrezzature, probabilmente occulte anch’esse.

Nel caso di specie, infatti, il collegio laziale ha sottolineato come la mancanza di attrezzature e di organizzazione rivesta un interesse secondario, ove si possa ben presumere, dal numero dei condomini gestiti (7, 8, 9 a volta) che, in qualche modo, l’amministratore sia occulto e possa, pertanto, avere strumenti ed organizzazione idonei all’attività di amministratore espletata in modo professionale. La sentenza de qua ha stabilito, al contrario, che la forma di collaborazione coordinata e continuativa, si possa ravvisare ove l’amministratore sia anche condomino e sia coinvolto dal turn – over dei proprietari del fabbricato, stabilito, eventualmente, con un verbale di assemblea.

Tale orientamento della giurisprudenza di Cassazione e di merito troverebbe conferma in quello del Ministero delle Finanze espresso nella circolare n. 77 del 24/12/1992. In tale sede, l’Amministrazione finanziaria ha sancito l’importanza del numero di condomini gestiti del singolo soggetto, stante che la pluralità di prestazioni relative all’amministrazione di più condomini comporta la sussistenza del requisito soggettivo dell’esercizio di una professione imponibile IVA.

La circolare succitata precisa, altresì, che l’attività dell’amministratore di condominio evidenzia le operazioni imponibili all’imposta sul valore aggiunto, salvo le ipotesi in cui tale attività venga svolta in modo occasionale da un soggetto che non eserciti altra attività di lavoro autonomo rilevante agli IVA. (vd. Cass. civ. 20.04.2007 n. 9410).

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5056 del 21 aprile 1999 afferma che l’amministratore di condomini non è soggetto alle scritture contabili ed Iva solo quando, non esercitando altra professione, gestisca l’amministrazione di un condominio senza mezzi organizzati; viceversa è soggetto agli obblighi fiscali l’amministratore, anche non abituale, che esercita professionalmente un’altra attività di lavoro autonomo. In sostanza, quando l’attività di amministrazione viene effettuata per più condomini, con propri mezzi (computer, libri, personale impiegato, telefono, fax, scanner, stampanti, autovettura, ecc.) e da una propria sede (un ufficio attrezzato) si è in presenza dell’esercizio professionale di quest’attività, aspetto che impone l’apertura della partita Iva e quanto ne consegue.

Sempre a tal proposito la Suprema Corte con pronuncia del 26-11-2008, n. 28186, così stabilisce: “il compenso dell’amministratore di condominio non è assoggettabile ad IVA, ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 5, comma 2, soltanto se l’attività venga espletata senza l’impiego di mezzi organizzati, rientrando tale attività, altrimenti, tra le prestazioni di servizi espletate nell’esercizio di arti e professioni (da ultimo, Cass. 12916/07).

Ed ancora la sentenza della Cassazione civile, sez. Tributaria, 13-03-2009, n. 6136: “L’amministratore di una pluralità di condomini svolge un’attività professionale autonoma, senza coordinamento con un soggetto titolare di un’attività o di un’impresa e non può, quindi, essere considerato un collaboratore, ai fini della disciplina di cui all’art. 49 TUIR, mancando l’elemento dell’unitarietà del rapporto con il beneficiario della prestazione. Ne consegue che il compenso a lui versato va assoggettato ad IVA, in quanto, mancando il requisito del coordinamento, viene meno il presupposto, previsto dall’art. 5, comma secondo, del d.P.R. n. 633 del 1972 per escludere l’applicazione della relativa disciplina”. (vd Cass. Civ. sez. Trib. 20-04-2007 n. 9410).

In conclusione la persona fisica che riveste l’incarico di amministratore di condominio svolge una vera e propria attività di lavoro autonomo; di conseguenza, per condurre l’attività con carattere professionale l’amministratore deve possedere la partita Iva.

L’individuazione degli adempimenti fiscali da porre in essere impone la necessità di distinguere in quale posizione giuridica è l’amministratore.

Esercizio abituale di una attività professionale e, contemporaneamente, svolgimento anche dell’amministrazione dei condomini: L’attività di amministratore, al pari dell’altra attività, genera reddito di lavoro autonomo; anche in tal caso si applicano tutti gli obblighi previsti dalle norme Iva.
Esercizio in maniera sistematica, abituale e organizzata dell’attività: Il reddito è qualificato come reddito di lavoro autonomo e si applicano tutti gli obblighi previsti dalle norme Iva (fatturazione, tenuta dei registri Iva, versamento dell’Iva periodica, dichiarazione, eccetera).
Non esercente arti o professioni, che svolge in via continuativa l’attività di amministratore senza vincolo di subordinazione, senza impiego di mezzi organizzati e con retribuzione periodica prestabilita: L’attività genera reddito assimilato a quello di lavoro dipendente e, ai relativi compensi, si applicano le regole di tassazione proprie del reddito di lavoro dipendente; inoltre, non c’è alcun obbligo ai fini Iva in quanto l’attività è esclusa dal campo Iva.
Se l’attività viene svolta da società di persone o di capitali nominate amministratori con rappresentanza del condominio: Il reddito che le stesse percepiscono è qualificato come reddito d’impresa e si applicano gli obblighi previsti dalle disposizioni Iva.

 

  1. IRAP

L’imposta regionale sulle attività produttive, IRAP, può essere definita come imposta locale, in quanto applicabile alle attività produttive esercitate nel territorio di ciascuna regione. Essa ha sostituito, a partire dal 1998, una serie di imposte, tra le quali l’ILOR, l’ICIAP, la c.d. tassa sulla salute e altre tasse minori.

Presupposto per la sua applicazione è l’esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata diretta alla produzione e allo scambio di beni o alla prestazione di servizi; nonché in ogni caso, l’attività esercitata da società ed enti, organi ed amministrazioni dello Stato.

Sul punto, si è espressa la Corte Costituzionale che, nel confermare la costituzionalità dell’imposta, ha, tuttavia, ammesso la non assoggettabilità ad IRAP di una attività professionale esercitata in assenza di elementi di organizzazione. Sulla base di tale principio ci sono state alcune pronunce che hanno ritenuto non applicabile l’IRAP, in assenza di elementi di un’autonoma organizzazione di mezzi, anche nei confronti di soggetti diversi dai professionisti (C.T.P. Macerata 15 marzo 2004, n. 4/03/04; C.T.R. Emilia Romagna 7 aprile 2004, n. 36/33/04).

Peraltro, il requisito dell’autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione, e non sia quindi inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. Costituisce onere del contribuente che chieda il rimborso dell’imposta asseritamente non dovuta dare la prova dell’assenza delle predette condizioni”. Sul punto Suprema Corte a Sezioni Unite con decisione del 26 maggio 2009 n. 12108, n. 12109, n. 12110 e n. 12111 e Cass. 19.07.2011 n. 15803; 8556/11; Cass. 10240/10; 21122/10; Cass. 16.02.2007 n. 3672, n. 3673, n. 3677, n. 3678, n. 3679; Cass. 8 novembre 2008 n. 2668).

A tal proposito per quanto riguarda l’assoggettamento dell’amministratore di condominio all’IRAP, si veda la sentenza della Cassazione n. 21203 del 05.11.2004. Ed ancora alcune pronunce della giurisprudenza di merito che determinano i confini, entro i quali, questo tributo risulti essere applicabile a tale categoria di contribuenti.

Nella sentenza della Cass. 27 gennaio 2014, n. 1575, che ad oggetto la pretesa di rimborso IRAP da parte di uno studio associato di amministratori di condominio, sono evidenziate alcune delle posizioni assunte dalla giurisprudenza di legittimità relativamente sia al requisito impositivo di tale tributo, costituito dall’autonoma struttura organizzativa, sia all’onere probatorio a carico del contribuente nel giudizio di rimborso. Viene, inoltre, sottolineato il collegamento esistente tra l’assoggettamento degli amministratori di condominio all’IRAP ed il carattere professionale della loro attività. Con la sentenza in esame la Suprema Corte, in accoglimento del ricorso, ha cassato con rinvio l’impugnata sentenza, da un lato, ribadendo l’assoluta compatibilità dell’autonoma organizzazione, quale requisito impositivo dell’IRAP, con l’irrisorietà dei beni strumentali e con la mancanza di collaborazioni di terzi e, dall’altro lato, richiamando l’orientamento secondo cui l’esercizio in forma associata di una professione liberale è circostanza di per sé idonea a far presumere l’esistenza di una autonoma organizzazione, ancorché non di particolare onere economico, nonché dell’intento di avvalersi della reciproca collaborazione e delle rispettive competenze, ovvero della sostituibilità nell’espletamento di alcune incombenze, sì da potersi ritenere che il reddito prodotto non sia frutto esclusivamente della professionalità di ciascun componente dello studio e, conseguentemente, debba essere assoggettato all’IRAP, a meno che il contribuente non dimostri che tale reddito è derivato dalla sola attività dei singoli associati.

Assolutamente coerente con i presupposti impositivi dell’IRAP appare, pertanto, l’applicazione dell’imposta all’amministratore di condominio (o allo studio associato di amministratori di condominio), che eserciti la sua attività professionale con un’autonoma struttura organizzativa.

Del resto, all’esito della recente riforma (legge 11 dicembre 2012, n. 220, in vigore dal 18 giugno 2013) non sembra potersi dubitare, non solo ai fini del diritto tributario, ma anche del diritto civile, della professionalità dell’attività dell’amministratore di condominio, il quale è, quindi, tenuto ad adempiere le sue obbligazioni non con la diligenza del buon padre di famiglia, ma con quella di cui all’art. 1176, comma 2, cod. civ.: in questo senso depongono i requisiti di professionalità oggi necessari ex art. 71-bis disp. att. cod. civ. e l’espresso riferimento, nell’art. 1129, comma 4, cod. civ., ad una possibile polizza dell’amministratore per la responsabilità civile professionale.

Con la recentissima sentenza n. 7371 del 14 aprile 2016, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha deciso che presupposto dell’IRAP è l’esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata diretta alla produzione e allo scambio ovvero alla prestazione di servizi, sicché ove l’attività sia esercitata da società e enti soggetti passivi dell’imposta a norma dell’art. 3, D.Lgs. n. 446/1997, ivi incluse le società semplici e le associazioni senza personalità giuridica costituite fra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni, essa, in quanto esercitata da soggetti, strutturalmente organizzati per la forma nella quale l’attività è svolta, costituisce ex lege, in ogni caso, presupposto d’imposta, senza necessità di accertamenti sulla sussistenza dell’autonoma organizzazione.

La sentenza n. 7371 del 14 aprile 2016, traeva origine dalla decisione della CTR che, accogliendone solo parzialmente l’appello, aveva riconosciuto il diritto di una società semplice svolgente attività di amministratore condominiale, al rimborso dell’IRAP versata per gli anni dal 1998 al 2002, e non anche per il 2003, il cui importo di 609 euro era stato portato in compensazione l’anno successivo.

Secondo la CTR la sussistenza delle circostanze che legittimano l’applicazione del tributo deve essere riscontrata attraverso un’analisi economica e qualitativa dell’attività esercitata, potendo esistere attività autonome svolte in assenza di organizzazione di capitali e lavoro altrui, cosa che la CTR aveva riscontrato nel caso in esame, in quanto il contribuente aveva sufficientemente provato e documentato tale assenza, avendo esercitato la propria attività autonoma in via quasi esclusivamente personale, senza l’ausilio di personale dipendente e di ingenti cespiti, difettando dunque il presupposto impositivo previsto dall’art. 2 del D.Lgs. n. 446/1997.

Contro la sentenza veniva proposto ricorso per Cassazione dall’Agenzia delle Entrate, in particolare censurandola per aver ravvisato la CTR l’insussistenza dell’autonoma organizzazione in presenza di un’attività svolta in forma associata/societaria, come ammesso dalla stessa contribuente, laddove non solo l’attività svolta in forma associata rientrerebbe nella fattispecie impositiva, ma in ogni caso la struttura tipica degli studi associati renderebbe evidente l’esistenza di un’organizzazione di mezzi e persone volta al raggiungimento di uno scopo, e quindi la piena assoggettabilità alla norma.

A seguito di rimessione della questione alle Sezioni Unite, le stesse sono state chiamate a decidere “se, in applicazione del combinato disposto degli articoli 2 e 3 del D.Lgs. n. 446 del 1997, debba essere sottoposto ad IRAP il “valore aggiunto prodotto nel territorio regionale” da attività di tipo professionale espletate nella veste giuridica societaria, ed in particolare di società semplice, anche quando il giudice valuti non sussistente una “autonoma organizzazione” dei fattori produttivi.

Orbene, i Supremi Giudici, dopo aver operato una puntuale ricognizione della normativa e della giurisprudenza formatasi sulla questione, hanno osservato che presupposto dell’imposta regionale sulle attività produttive è l’esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata diretta alla produzione e allo scambio ovvero alla prestazione dì servizi; tuttavia, quando l’attività è esercitata dalle società e dagli enti, che siano soggetti passivi dell’imposta a norma dell’art. 3, D.Lgs. n. 446/1997 – comprese quindi le società semplici e “le associazioni senza personalità giuridica costituite fra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni”, di cui all’art. 5, comma 3, lettera c), TUIR – essa, in quanto esercitata da tali soggetti, strutturalmente organizzati per la forma nella quale l’attività è svolta, costituisce ex lege, in ogni caso, presupposto d’imposta, dovendosi perciò escludere la necessità di ogni accertamento in ordine alla sussistenza dell’autonoma organizzazione.

Da qui, dunque, nel primo caso il rigetto e, nel secondo, l’accoglimento del ricorso dell’Agenzia.

In merito, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio, sezione I, con sentenza 20/09/2004, n. 103, così si è espressa: “Secondo la Corte Costituzionale per l’inapplicabilità o meno dell’IRAP, occorre accertare caso per caso se vi sia la presenza di una struttura autonomamente organizzata. Ne deriva che non sussistono i presupposti per l’assoggettamento al tributo, nel caso in cui l’attività di amministratore di condominio risulti imperniata esclusivamente sulla persona del ricorrente, data la mancanza di dipendenti e anche di beni strumentali rilevanti, tanto che la stessa attività non potrebbe avere alcuno sviluppo.”

L’art. 2 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, come modificato dall’art. 1, comma 1, del D.Lgs. 10 aprile 1998, n. 137, dispone testualmente che “Presupposto dell’imposta è l’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi.

L’attività esercitata dalle società e dagli enti, compresi gli organi e le amministrazioni dello Stato, costituisce in ogni caso presupposto di imposta”.

Ed infatti, è proprio sul significato della locuzione “autonoma organizzazione“, che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 156 del 21/05/2001, ha sancito il suesposto importante e condiviso principio.

Tuttavia, si è al contempo ritenuto che, mentre l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di impresa, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda l’attività di lavoro autonomo, ancorché svolta con carattere di abitualità.

Invero, alla luce della giurisprudenza in materia, si deve ritenere possibile ipotizzare un’attività professionale svolta in assenza di organizzazione di capitali o lavoro altrui.

Ma è evidente che, nel caso in cui “un’attività professionale fosse svolta in assenza di elementi di organizzazione il cui accertamento, in mancanza di specifiche disposizioni normative, costituisce questione di mero fatto, risulterà mancante il presupposto stesso dell’imposta sulle attività produttive, per l’appunto rappresentato, secondo l’art. 2 cit., dall’esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata, diretta alla produzione e allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi, con la conseguente inapplicabilità dell’imposta stessa”.

A tal proposito l’Ordinanza Cassazione civile, sez. Tributaria, 14-07-2011, n. 15582 ha motivato la decisione ritenendo che: “in applicazione dei principi stabiliti dalla Corte Costituzionale in materia, non vi fossero ragioni per esonerare il contribuente dall’imposta, atteso che l’attività di amministratore di condomini si concretizzava in un’attività ripetitiva di tenuta di contabilità svolta in modo automatico e grazie al presumibile ricorso a collaboratori stabili, alla luce dei rilevanti compensi fatturati a terzi e non altrimenti giustificati”.

Analogamente a quanto stabilito dalla circolare ministeriale n. 77/1992 in materia di IVA, vi è una pronuncia della Commissione Tributaria Regionale della Liguria, sezione VIII (sentenza del 28/06/2004, n. 4), che in tema Irap ha determinato positivamente la tassazione dell’attività dell’amministratore di condomini, qualora siffatta attività sia impiegata verso un numero considerevole di condomini, implicante, inevitabilmente, un’organizzazione sistematica di capitali ovvero di dipendenti.

Peraltro, per la Commissione tributaria regionale PIEMONTE Torino, sez. XXVII, 24-04-2008, n. 20: “L’assenza di organizzazione autonoma e di capitale, comporta, per un consulente aziendale controllo di qualità, l’assenza del presupposto IRAP (Nel caso di specie, il contribuente impugnava il silenzio rifiuto relativamente all’istanza di rimborso per versamenti IRAP effettuati per l’anno 1998, 1999, 2000 e 2001, presentata in data 14 giugno 2002, per un totale complessivo di euro 4.084,15. Il contribuente evidenziava che i redditi derivavano esclusivamente dall’attività di amministratore di condominio, che viene svolta con modeste attrezzature d’ufficio, senza dipendenti o collaboratori. Parte resistente evidenziava come i compensi corrisposti a terzi fossero euro 6.303 per il 1998, euro 10.340 per il 1999, euro 9.347 per il 2000, ed il valore dei beni strumentali fosse pari ad euro 2.427 per il 1998, euro 8.260 per il 1999, euro 9.347 per il 2000, con la conseguenza che risultava esserci un tipo di organizzazione del lavoro tutt’altro che occasionale, e l’impiego di mezzi strumentali di importo non trascurabile”.

  1. ASPETTI FISCALI SULLE PARTI COMUNI DEL CONDOMINIO

Imposte sui redditi

Come accennato sopra, il condominio non è soggetto passivo d’imposta sia per i tributi diretti, sia indiretti, sia locali. In particolare il condominio quale mero ente di gestione non può essere assimilato ad un ente collettivo che, sebbene privo di personalità giuridica, rappresenti un autonomo e unitario cen­tro di imputazione di situazioni giuridiche non riconducibili ad altri soggetti.

La soggettività tributaria richiede, infatti, l’esi­stenza di un’organizzazione distinta dai partecipanti cui imputare eventuali redditi e obblighi tri­butari, del tutto inesistente nel condominio degli edifici.

Ne consegue che il reddito prodotto nelle parti comuni dell’edificio, in ragione della loro fonte e categoria di appartenenza (redditi fondiari, diversi, impresa, ecc.), concorre a formare il reddito di ciascun condo­mino per la parte corrispondente al suo diritto, come di seguito brevemente esposto con riguardo al reddito di fabbricato, ai redditi diversi e ai redditi di partecipa­zione.

Reddito di fabbricati

Di norma il reddito delle parti comuni (portineria, lavanderia, alloggio portiere, ecc.) concorre a formare il reddito di ciascun condomino e va, pertan­to, dichiarato da ognuno, come reddito di fabbri­cato, per la parte corrispondente al suo diritto, ma solo se si verificano le seguenti condizioni:

  • alle parti comuni condominiali sia stata attribui­ta (o è attribuibile) un’autonoma rendita cata­stale (l’amministratore comunica a ciascun con­domino la quota di reddito spettante);
  • la quota imputabile a ciascun condomino deve essere superiore ad euro 25,82. Tale limite non vale per le parti comuni condominiali locate e per i negozi (cfr. art. 26, comma 2, e art. 36, comma 3-bis, D.P.R. n. 917/1986).

I condomini dovranno, pertanto, inserire i redditi derivanti dalle parti comuni del condominio nella loro dichiarazione dei redditi, proporzionalmente alla quota posseduta, tra i redditi di fabbricati e in questa forma il reddito sarà soggetto a tassazione diretta.

Nel caso di locazione di parti comuni del condo­minio, portineria, ecc., il canone di locazione deve essere imputato pro quota a ciascun condomino che deve dichiararlo come reddito fondiario nella propria dichiarazione dei rediti.

In ogni caso è esclusa la responsabilità solidale dei condomini per i debiti tributari derivanti dalle parti comuni.

L’art. 26, comma 2, D.P.R. n. 917/1986 dispone espressamente che il reddito dei fabbricati va imputato a ciascun condomino per la parte corrispon­dente al suo diritto.

Dalla natura parziaria dell’obbligazione tributaria consegue che:

— la dichiarazione dei redditi andrà presentata dai condomini uti singuli pro quota;

— l’eventuale atto di accertamento dell’ufficio fi­scale dovrà essere notificato ad ogni condomino con riferimento alla quota ad ognuno imputabi­le;

— la riscossione coattiva, relativa al reddito deri­vante dalle parti comuni, dovrà essere compiuta solo per la quota parte di reddito.

Redditi diversi

Per l’ipotesi di proventi derivanti da attività non commerciali esercitate nelle parti comuni dell’edificio ovvero derivanti da obblighi di fare, non fare o permettere, i relativi redditi vanno imputati a ciascun condomino, pro quota, in ragione dei rispettivi millesimi di proprietà, come redditi di­versi ex art. 67, comma 1, lett. i), 1) del D.P.R. n. 917/1986.

Società di fatto tra condomini

Per l’ipotesi di esercizio di attività commerciale nelle parti comuni dell’edificio si presume l’esistenza di una società di fatto tra i condomini (esclusi quelli che non hanno approvato la decisio­ne e non intendono trarre vantaggio, cfr. art. 1121, comma 1, cod. civ.) e, pertanto, i relativi proventi vanno imputati a ciascun condomino quale reddito di partecipazione (cfr. risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 10 agosto 2012, n. 84/E).

La società di fatto è un soggetto passivo d’impo­sta:

  • ai fini delle imposte dirette e soggetta alla di­sciplina delle società in nome collettivo (cfr. art. 5, P.R. n. 917/1986);
  • ai fini IRAP;
  • ai fini IVA (art. 4, D.P.R. n. 633/1972).

IRAP

Il condominio, ovvero gli eventuali redditi deri­vanti dalle parti comuni dell’edificio (ad esempio canone di locazione della portineria, reddito fon­diario derivante dalla parti comuni) sono esclusi dall’IRAP per mancanza del presupposto imposi­tivo.

L’IRAP (acronimo di Imposta Regionale sulle At­tività Produttive) è, infatti, un’imposta applicabile alle attività produttive e presupposto per la sua applicazione è l’esercizio abituale di un’attività (di lavoro autonomo o d’impresa) autonomamente organizzata diretta alla produzione e allo scambio di beni o alla prestazioni di servizi (cfr. art. 2, D.Lgs. n. 446/1997).

Imposta sul valore aggiunto

Fatta eccezione per l’esercizio di una attività com­merciale in una parte comune dell’edificio (nel qual caso potrebbe ritenersi costituita una società di fatto tra i condomini, vedi supra), il condominio non è soggetto d’imposta ai fini IVA e l’ammini­stratore non è obbligato a chiedere l’emissione della fattura per i servizi e beni acquistati, ma solo l’emissione della ricevuta fiscale.

Imposta di registro

L’imposta di registro si applica nella misura indi­cata nella tariffa, agli atti soggetti a registrazione e a quelli volontariamente presentati per la registra­zione (art. 1, D.P.R. n. 131/1986).

Locazione parti comuni

L’imposta di registro è dovuta per i contratti di locazione di parti comuni del condominio (portineria, ecc.). Sono obbligati a richiedere la registrazione le parti contraenti o il professionista che ha redatto il contratto di locazione.

La registrazione è obbligatoria e va effettuata entro il termine fisso di 30 giorni dalla data del­l’atto o dalla sua decorrenza se antecedente presso qualunque Agenzia delle Entrate, indipendente­mente dal luogo ove è situato l’immobile locato. A decorrere dal 1° luglio 2010 è necessario indi­care i dati catastali (art. 19, comma 5, D.L. 31 maggio 2010, n. 78). In tutti i casi le parti rispondono in solido del pagamento del tributo.

Di norma si applica l’imposta proporzionale di registro del 2% sull’ammontare dei canoni stabi­liti per l’intera durata del contratto.

Divisione parti condominiali

In caso di divisione di beni immobili condominiali (come posti auto o aree scoperte) in parti che corrispondano per valore alle quote di diritto spet­tanti a ciascun condomino, la divisione operata, senza alcun conguaglio, in beni o denaro, non si configura come vendita ma è un atto di natura dichiarativa, soggetto all’applicazione dell’impo­sta proporzionale di registro dell’1%.

Invece, qualora, nella singola assegnazione di beni a favore di uno o più condomini, si ecceda rispetto alla quota spettante, l’atto, per la sola parte ecce­dente, è qualificabile come trasferimento.

Condominio precostituito

La precostituzione di condominio si realizza me­diante la divisione anticipata di un fabbricato da costruire ad opera dei proprietari pro indiviso del suolo edificabile, con l’effetto che, a seguito della costruzione, a ciascuno è attribuita la pro­prietà esclusiva di un appartamento e, nel contem­po, la quota delle parti del fabbricato che resteran­no di proprietà comune.

La precostituzione di condominio su un edifican­do edificio può, alternativamente, essere attuata mediante:

1) reciproche concessioni di superficie (ius aedifi­candum); sia

2) divisione anticipata di cosa futura. In tale ultima ipotesi, per effetto dell’accessione, l’edificio ap­pena costruito cade nella comunione, già esi­stente sull’area fabbricabile e contestualmente si verifica l’effetto della sua divisione (cfr. Cass. 2 agosto 1977, n. 3410; Cass. 19 marzo 19081, n. 1621).

Aderendo alla tesi civilistica (prevalente) che qua­lifica il contratto come divisorio, ex art. 3 Tariffa parte I D.P.R. n. 131/1986, si applicherà l’imposta proporzionale di registro con aliquota 1%, sul va­lore delle singole unità assegnate, in base al pre­sumibile valore attribuito all’intero edificio al mo­mento dell’anticipata divisione e delle ordinarie aliquote per l’eventuale cessione in quota o mil­lesimale della parte del terreno rimasto indiviso (cfr.: Comm. Trib. Centrale 16 gennaio 1981, n. 151; Comm. Trib. II grado di Ravenna 2 maggio 1988, n. 42).

Diversamente, qualora l’atto sia considerato come concessione ad aedificandum si applicherà l’ali­quota dell’8% prevista per il trasferimento di ter­reni.

Atti interni del condominio

Tutti gli atti interni del condominio (prospetti con­tabili, registri condominiali, verbali delle assem­blee, regolamenti condominiali, ecc.) non devono essere registrati in termine fisso e non sono sog­getti ad imposta di registro (né ad imposta di bollo in quanto non compresi tra gli atti commerciali), salvo essere registrati in caso d’uso qualora deb­bano essere prodotti in giudizio.

Imposta Municipale Propria (IMU)

Il presupposto impositivo dell’IMU è dato dal possesso di immobili siti in Italia e tra questi i fabbricati, compresi quelli adibiti ad abitazione principale (a differenza dell’ICI che esentava le abitazioni principali), anche in costruzione. È irrilevante l’uso cui l’immobile è destinato.

Nei riguardi dell’Imu, relativamente alle parti comuni dell’edificio condominiale, come, a titolo meramente indicativo e senza pretesa di completezza:

– l’abitazione del custode;

– il locale portineria;

– la lavanderia;

che risultano censiti in modo autonomo e, quindi, con propria rendita catastale, i soggetti obbligati a corrispondere il tributo sono i singoli condomini, ciascuno per la propria quota, anche se è stata prevista la possibilità-facoltà di eseguire il versamento dell’intera imposta direttamente dall’amministratore del condominio, salvo poi rivalersi sui singoli condomini.

Nel caso in cui venga costituito il condominio, la dichiarazione deve essere presentata dall’amministratore del condominio per conto di tutti i condomini, il quale è chiamato a prelevare l’importo necessario dal conto corrente condominiale, cioè dalle disponibilità comuni messe a disposizione dai vari condòmini, attribuendo necessariamente le singole quote ai proprietari.

In ordine all’aliquota applicabile alle parti comuni, va detto che non è possibile ravvisare un rapporto di pertinenzialità con l’abitazione principale del singolo condòmino, trattandosi di beni non di proprietà dei singoli ma del condominio. Pertanto non sarà possibile applicare l’aliquota agevolata per l’abitazione principale, dovendosi invece fare riferimento all’aliquota ordinaria fissata dal Comune ove è ubicato l’edificio.

Per quanto riguarda l’Imu la norma di riferimento è quella contenuta nel comma 728-bis della Legge 147/2013 il quale ha reintrodotto lo stesso disposto normativo contenuto nell’articolo 19 della Legge 388/2000 valido ai fini Ici, il quale autorizzava direttamente l’amministratore ad effettuare il pagamento delle imposte su tutte le parti comuni condominiali.

Ai fini Tasi, invece, è stato lo stesso Ministero delle Finanze, con una Faq del 4 giugno 2014, che ha chiarito che l’amministratore è il soggetto tenuto al versamento sui locali di uso Comune, con l’obiettivo quanto mai attuale di semplificare al massimo gli adempimenti tributari a carico dei contribuenti.

Tra le due disposizioni vi è una differenza non trascurabile.

  • Ai fini Imu vi è un preciso disposto normativo che vincola l’amministratore di condominio ad effettuare i pagamenti per le parti comuni condominiali.
  • Ai fini Tasi, non essendoci alcuna norma precisa, quella concessa all’amministratore è soltanto una facoltà, e non un obbligo come ai fini Imu. Per questo motivo, in caso di mancato pagamento della Tasi, è da ritenere che il Comune sia tenuto ad accertare direttamente i singoli proprietari delle parti comuni, e non l’amministratore, come invece avviene ai fini Imu.

E’ utile quindi approvare in assemblea condominiale una delibera che deleghi l’amministratore a pagare la Tasi sulle parti comuni.

Tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (TOSAP)

La tassa è dovuta al Comune o alla Provincia dal titolare dell’atto di concessione o di autorizzazione o, in mancanza, dall’occupante di fatto, anche abusivo, in proporzione alla superficie effettiva­mente sottratta all’uso pubblico nell’ambito del rispettivo territorio (art. 39, D.Lgs. n. 507/1993). Se l’occupazione del suolo pubblico è effettuata dal condominio (rectius nell’interesse dei condo­mini) soggetti passivi sono tutti i condomini, vale a dire che la tassa va ripartita tra tutti i condomini pro quota in ragione dei millesimi di proprietà. Diversamente, se l’occupazione del suolo pubbli­co è effettuata a favore di proprietà esclusive o di pertinenza di proprietà esclusive, ad esempio gri­glie di aereazione di cantine, soggetti passivi sono esclusivamente i condomini proprietari.

  1. Conto corrente

Per ciò che concerne la contabilità, l’amministratore deve avere un registro in cui vengano inseriti tutti i movimenti, un riepilogo finanziario, una nota esplicativa, nonché utilizzare un conto corrente intestato al condominio.

Sempre tra i compiti dell’amministratore rientra il vincolo di far transitare le somme ricevute ed erogate su un conto corrente intestato al condominio in modo da evitare confusione tra il patrimonio personale e condominiale, ovvero tra i patrimoni dei vari stabili condominiali eventualmente gestiti e l’obbligo di conservare tutta la documentazione inerente alla propria gestione riferibile sia al rapporto con i condomini sia allo stato tecnico-amministrativo dell’edificio e del condominio. Le innovazioni sono contenute sempre nell’articolo 9 della legge 220/2012
(Legge 220/2012, articolo 9).

Aggiunge l’articolo 1129, comma 12, nn. 3 e 4, del Cc, tra le ipotesi tipizzate di gravi irregolarità, legittimanti la revoca dell’amministratore, proprio i casi della «mancata apertura e utilizzazione del conto intestato al condominio», o della gestione che possa generare confusione tra il patrimonio del condominio e il patrimonio personale dell’amministratore o di altri condomini. Il conto corrente condominiale è destinato così a svolgere pure una funzione di garanzia e di responsabilità, allo scopo di assicurare i terzi creditori del condominio: garanzia generica, sul modello della responsabilità patrimoniale ex articolo 2740 del Cc, e perciò non dotata di forza di esclusione o di prelazione.

La legge 220/2012 ha, peraltro, rivestito di forza normativa quella tendenza giurisprudenziale, diffusa soprattutto fra i giudici di merito, per la quale la mancata apertura di un conto corrente del condominio, separato rispetto al patrimonio personale dell’amministratore, già costituiva irregolarità tale da comportare la revoca del mandato. La previsione di un conto corrente intestato al condominio si rivela, infine, necessitata anche per scongiurare le negative conseguenze di carattere tributario, legate all’operatività delle presunzioni adottate dalla legislazione fiscale di imputabilità di tutte le movimentazioni bancarie direttamente all’intestatario del conto corrente: tali presunzioni onerano l’amministratore di fornire altrimenti la prova specifica della riferibilità degli accrediti sul proprio conto all’attività di gestione condominiale per poter escludere che gli stessi non costituiscano corrispettivi non dichiarati. L’articolo 1130, n. 8, del Cc, pone a carico dell’amministratore l’obbligo di conservare tutta la documentazione inerente alla propria gestione riferibile sia al rapporto con i condomini sia allo stato tecnico-amministrativo dell’edificio e del condominio.

Non sembra immediatamente applicabile, nemmeno per la documentazione strettamente contabile, il termine decennale di durata dell’obbligo di conservazione delle scritture contabili, fissato dall’articolo 2220 del Cc, seppur il nuovo articolo 1130-bis del Cc specifica che le scritture e i documenti giustificativi, posti a sostegno del rendiconto annuale, devono essere conservati, appunto, per dieci anni dalla data della relativa registrazione.

Il rapporto tra amministratore e condomini è basato sulla fiducia. Nello svolgimento del suo mandato l’amministratore deve sempre rispettare gli obblighi di lealtà, correttezza e di diligenza nei confronti dei condomini, soprattutto nella gestione dei fondi condominiali, la cui violazione può incidere negativamente sul rapporto fiduciario, intercorrente tra le parti, fino al punto da rendere impossibile lo svolgimento dell’incarico e la gestione del condominio.

Pertanto, rientra nei poteri negoziali dell’amministratore, e rappresenta una opportuna cautela e garanzia di corretta gestione, l’apertura di un conto corrente, anche se la banca, prima di accendere un conto intestato all’ente (condominio), deve accertarsi dei poteri del richiedente.

La gestione dei fondi e dei movimenti di cassa condominiali mediante un conto corrente bancario o postale pone l’amministratore anche al riparo da possibili accertamenti fiscali da parte dell’Agenzia delle Entrate. Non a caso la Suprema Corte ha stabilito che “Nel caso di amministratore di condominio, è necessario verificare, in base alla prova liberatoria offerta dal contribuente, quali siano le singole movimentazioni bancarie riferibili direttamente all’attività di amministrazione del condominio, onde poter conseguentemente escludere che le stesse non costituiscano corrispettivi non dichiarati. La prova liberatoria non può essere generica, ma deve essere specifica, stante la presunzione di cui all’art. 51 D.P.R. n. 633/1972, se il contribuente utilizza il conto corrente a lui personalmente intestato anche per maneggio di denaro altrui deve fornire la prova analitica della riferibilità di ogni movimentazione bancaria alla sua attività di maneggio di denaro altrui, diversamente, la rispettiva movimentazione, in assenza di altra idonea giustificazione, è configurabile quale corrispettivo non dichiarato“. (Cass. 13 giugno 2007 n. 13818).

Nella gestione del conto corrente bancario o postale intestato ad un condominio l’amministratore non può compiere operazioni che eccedano l’ordinaria amministrazione, salvo il caso di apposita delibera assembleare; è pertanto inefficace nei confronti del condominio già intestatario del relativo conto corrente, l’apertura di credito illecitamente ottenuta dall’amministratore pro tempore dietro presentazione alla banca di falsa delibera da lui stesso redatta, contenente l’autorizzazione assembleare ad effettuare l’operazione bancaria sulla base di necessarie e ingenti somme da sborsare per spese di ristrutturazione dell’immobile; conseguentemente, il condominio non potrà essere chiamato a rispondere del relativo debito derivante dal saldo negativo del conto (Trib. Monza, sez. II 6 novembre 2006), allo stesso modo non è efficace nei confronti del condominio il contratto di mutuo stipulato dall’amministratore senza preventiva delibera assembleare, anche se stipulato per provvedere alle spese occorrenti alla manutenzione delle parti comuni dell’edificio (Cass. 5 marzo 1990 n. 1734).

La gestione separata delle risorse finanziarie del condominio è giustificata anche dalla necessità di evitare tutte le conseguenze dannose per l’ente di una eventuale procedura esecutiva o fallimentare che potesse svolgersi nei confronti dell’amministratore, in quanto com’è evidente la confusione dei patrimoni potrebbe condurre i creditori – senza che il condominio possa eccepire alcunché – a rivalersi legittimamente su tutti i beni mobili (tra cui il denaro) ed immobili a questi intestati (Cass. 31 marzo 2011 n. 7510); per contro nello stesso caso di confusione dei patrimoni il creditore del condominio potrebbe rimanere vittima dell’illegittimo e fraudolento occultamento dei fondi del condominio, che venissero versati su conti o depositi bancari intestati personalmente all’amministratore.

  1. Rendiconto condominiale

Diventano più stringenti gli obblighi dell’amministratore di condominio in tema di tenuta della contabilità e presentazione del rendiconto: la riforma introduce nella documentazione del condominio il rendiconto condominiale, ex art. 1130-bis c.c.

Il rendiconto contiene le voci di entrata e di uscita ed ogni altro dato inerente alla situazione patrimoniale del condominio, ai fondi disponibili ed alle eventuali riserve che devono essere espressi in modo da consentire l’immediata verifica.

Al termine del suo mandato l’amministratore deve rendere ai condomini il conto della sua gestione, motivando e giustificando le spese sostenute e, in generale, ogni iniziativa da lui assunta per conto del condominio. Deve farlo entro 180 giorni perché così gli viene ora imposto dalla legge (articolo 1130, n. 10, del Codice) e dal più ampio dovere di diligenza e di buona fede nell’esecuzione del mandato.

Esso si compone di un registro di contabilità, di un riepilogo finanziario, nonché di una nota sintetica esplicativa della gestione con l’indicazione anche dei rapporti in corso e delle questioni pendenti.

Non è necessario che la contabilità sia redatta con forme rigorose e analoghe a quelle prescritte per i bilanci delle società, ma è sufficiente che essa sia idonea a rendere intellegibili ai condomini le voci di entrata e di uscita, con le relative quote di ripartizione. In particolare, è necessario che dal rendiconto risulti la specificità delle partite, presupposto indispensabile per la sussistenza dell’onere del destinatario del conto di indicare quelle che intende contestare.

L’assemblea può, in qualsiasi momento o per più annualità specificamente identificate, nominare un revisore che verifichi la contabilità del condominio; la relativa deliberazione deve essere assunta con la maggioranza prevista per la nomina dell’amministratore (si veda il sopra richiamato art. 1136, co. 4, c.c.) e la relativa spesa deve essere ripartita fra tutti i condomini in base ai millesimi.

I condomini ed i titolari di diritti reali o di godimento sulle unità immobiliari possono prendere visione dei documenti giustificativi di spesa in ogni tempo e, a proprie spese, estrarne copia.

Le scritture ed i documenti giustificativi devono essere conservati per 10 anni dalla data della relativa registrazione.

L’assemblea può anche nominare, oltre all’amministratore, un consiglio di condominio composto da almeno 3 condomini negli edifici di almeno 12 unità immobiliari, con funzioni consultive e di controllo.

GIURISPRUDENZA DI RIFERIMENTO

La Corte di Cassazione ha stabilito, con ordinanza 5 marzo 2013, n. 5473, in tema di accertamento induttivo, che il reddito imponibile dell’amministratore di condominio può essere calcolato dal Fisco sulla base del numero dei condomini.

Interessante la decisione della Cassazione con la sentenza n. 13818/2007: “La presunzione che traduce le movimentazioni in corrispettivi non si supera con il generico riferimento all’attività svolta”.

La prova liberatoria che consenta di superare la presunzione secondo cui le movimentazioni dei conti correnti bancari legittimano l’accertamento Iva, non può essere meramente generica e cioè relativa all’attività esercitata, ma deve essere specifica, in relazione a ogni singola operazione. Per i giudici, non è sufficiente che il contribuente adduca la qualità, ad esempio, come nel caso sottoposto al loro vaglio, di amministratore di condominio, ma è necessario fornisca la prova analitica della riferibilità di ogni movimentazione bancaria alla sua attività di maneggio di danaro altrui. Altrimenti, le stesse movimentazioni, in assenza di altra idonea giustificazione, sono configurabili quale corrispettivo non dichiarato.

Nello stesso senso Cassazione civile, sez. Tributaria, 20-10-2008, n. 25473 “in tema di IVA, ed al fine di superare la presunzione posta a carico del contribuente (amministratore di condominio) dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, n. 2, (in virtù della quale le movimentazioni di denaro risultanti dai dati acquisiti dall’ufficio si presumono costituire conseguenza di operazioni imponibili), non è sufficiente al contribuente dimostrare genericamente di avere fatto affluire su un proprio conto corrente bancario, nell’esercizio della propria professione, somme affidategli da terzi in amministrazione, ma è necessario che egli fornisca la prova analitica della riferibilità all’attività di maneggio di denaro altrui di ogni singola movimentazione del conto”.

D’altronde, la Cassazione ha anche sostenuto con sentenza 14860/2012 che i versamenti sul conto corrente bancario dell’amministratore di condominio sono reddito imponibile anche nel caso in cui li imputi a situazioni condominiali, occorrendo prove più dettagliate circa la provenienza del denaro. Infatti, secondo la Corte, per superare la presunzione ex art. 32, comma 1, n. 2, Dpr. 600/1973 (accertamento legittimato da movimentazioni dei conti correnti bancari) non è sufficiente riferirsi genericamente all’attività svolta; il contribuente dovrà fornire la prova della riferibilità di ogni movimentazione all’attività di amministratore di condominio. Le movimentazioni non giustificate si considerano come corrispettivo non dichiarato.

Sempre la Cassazione, riprendendo l’orientamento assolutamente prevalente nella giurisprudenza di merito, con sentenza del 10 maggio 2012 n. 7162 ha osservato che <<l’obbligo di aprire un conto corrente intestato al condominio deriva dalla necessità di evitare confusioni e sovrapposizioni tra il patrimonio del condominio ed il patrimonio personale dell’amministratore o quello di altri differenti condominii, da lui eventualmente amministrati e da una esigenza di trasparenza e di informazione, in modo che ciascun condominio possa costantemente verificare la destinazione dei propri esborsi e la chiarezza e facile comprensibilità dell’intera gestione condominiale>>.

Al contrario con sentenza 20 giugno 2012, n. 10199 la Suprema Corte ha ribadito che il sindacato dell’autorità giudiziaria sulle delibere delle assemblee condominiali non può estendersi alla valutazione del merito ed al controllo del potere discrezionale che l’assemblea esercita quale organo sovrano della volontà dei condomini, dovendosi esso limitare al riscontro della legittimità. Da tale premessa, la citata decisione ha affermato che non è suscettibile del controllo del giudice, attraverso l’impugnativa di cui all’art. 1137 c.c., l’operato dell’assemblea condominiale in relazione alla questione inerente alla mancata apertura di un conto corrente intestato al condominio, su cui depositare da parte dell’amministratore le somme ricevute, trattandosi di questione attinente all’opportunità o alla convenienza dell’adozione delle modalità della gestione delle spese relative alle cose ed ai servizi comuni, salvi restando i controlli sulla gestione di tali somme da effettuare in sede di approvazione del rendiconto.

Relativamente poi al rendiconto dell’amministratore condominiale, la sentenza n. 10153 del 9 maggio 2011 della Suprema Corte afferma che l’approvazione del rendiconto vale come riconoscimento del debito del condominio nei confronti dell’amministratore <<in relazione alle sole poste passive specificatamente indicate>>, ammettendo una approvazione parziale o di singole partite definite passive, corrispondenti a partite attive e quindi a crediti dell’amministratore. In effetti che il condominio con deliberazione della assemblea possa riconoscere a credito dell’amministratore talune poste del consuntivo, è abbastanza scontato, ma altro è l’approvazione, in senso proprio, del rendiconto quale documento contabile che esprime il saldo e quindi il risultato contabile della compensazione tra tutte le partite intercorse in un certo periodo di tempo tra chi è tenuto e chi ha diritto alla resa del conto.

L’approvazione limitata ad alcune partite, varrà quindi a renderle definitive ed incontestabili per entrambe le parti in un futuro conto consuntivo, ma non può valere come approvazione di questo.

  1. Adempimenti fiscali

Vediamo in sintesi gli aspetti fiscali e burocratici principali:

  • Il codice attività (ateco) previsto per l’amministratore di condominio è “68.32.00 – Amministrazione di condomini e gestione di beni immobili per conto terzi”.
  • L’amministratore di condominio può accedere al regime dei minimi rispettandone i limiti ed i requisiti, e quindi versare il 5% di imposta sostitutiva.
  • E’ possibile intraprendere l’attività di amministratore di condominio in forma societaria.
  • L’amministratore va inquadrato previdenzialmente con iscrizione alla gestione separata dell’INPS e versamento di contributi pari al 27,72% (per il 2012, aumenteranno nei prossimi anni fino al 33,72%) del reddito netto.
  • Fra le particolarità fiscali vi è l’obbligo di compilare, nel modello UNICO PF, il quadro AC (amministratori di condominio appunto) dove bisogna comunicare per ogni condominio amministrato (di cui è necessario trascrivere tutti i dati catastali) l’importo complessivo dei beni e servizi acquistati dal condominio nell’anno solare e dei dati identificativi dei relativi fornitori. E’ opportuno precisare che tra i fornitori del condominio sono da ricomprendere anche gli altri condomìni, super condomìni, consorzi o enti di pari natura, ai quali il condominio amministrato abbia corrisposto nell’anno somme superiori a 258,23 euroannui a qualsiasi titolo.
  1. Gli studi di settore

È nullo l’accertamento da studi di settore se non considera la riduzione dei ricavi conseguiti dal contribuente per effetto di una seconda attività svolta. Si configura, infatti, un’ipotesi di evidente difformità rispetto alla situazione standard configurata da Gerico. La valutazione delle prove è comunque demandata al giudice di merito. Ad affermarlo è la sentenza 2623/2016 della Cassazione.

L’agenzia delle Entrate ha emesso degli accertamenti per più periodi di imposta nei confronti di un geometra fondati sulle discordanze tra i ricavi dichiarati e quelli emergenti dall’applicazione dello studio di settore.

I provvedimenti sono stati impugnati in Commissione tributaria. In particolare, il ricorrente ha chiesto la disapplicazione dello strumento standardizzato in quando il reddito professionale era diminuito in conseguenza dello svolgimento anche di un’altra e diversa attività (amministratore di condominio).

Il giudice di primo grado ha accolto solo parzialmente il ricorso mentre il collegio d’appello ha riformato la decisione e ha annullato gli atti ritenendo provata la tesi difensiva del professionista.

L’amministrazione finanziaria ha impugnato la decisione per Cassazione lamentando, tra i diversi motivi, che la commissione regionale aveva erroneamente ripartito l’onere probatorio anche in capo all’ufficio. Nel confermare l’annullamento della pretesa, la Suprema corte ha rilevato innanzitutto che il giudice di merito aveva chiaramente indicato nella sentenza i motivi della propria decisione. Aveva ritenuto, infatti, che l’esistenza di un’altra attività esercitata dal professionista nei periodi di imposta oggetto di accertamento era provata e, soprattutto, non contestata dall’ufficio.

Nelle dichiarazioni presentate dal geometra era stato indicato anche un reddito di partecipazione in società, a conferma della verosimile riduzione dell’attività professionale principale.

La Cassazione ha così ricordato che in tema di studi di settore il contribuente può allegare e provare, senza limitazioni di mezzi e di contenuto, la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la propria attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento. Così facendo è possibile giustificare un reddito inferiore al risultato di Gerico (si veda la Cassazione 3415/2015).

Parte Seconda

Le nuove norme del processo tributario (D.lgs. n. 156 del 24 settembre 2015)

È intervenuta la parziale Riforma del Processo Tributario attuata con il D.lgs. n. 156 del 24 settembre 2015 pubblicato in G. U. n. 233 del 07/10/2015 – Supplemento ordinario n. 55 che ha in buona parte recepito le mie proposte modificative avanzate, nel mio progetto di legge di riforma del processo tributario presentato al Senato il 06 agosto 2014 dalla Senatrice Gambaro (n. 1593).

L’art. 10 della legge 11 marzo 2014, n. 23, infatti, ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per la revisione del processo del contenzioso tributario, attualmente disciplinato dal decreto 31 dicembre 1992, n. 546.

L’intervento normativo, si è mosso prevalentemente sulle seguenti principali direttrici:

  1. l’estensione degli strumenti deflattivi del contenzioso;
  2. l’estensione della tutela cautelare al processo tributario;
  3. l’immediata esecutività delle sentenze per tutte le parti, anche se non passate in giudicato;
  4. l’ampliamento della difesa personale e delle categorie di soggetti abilitati all’assistenza tecnica dinanzi alle Commissioni tributarie;
  5. il rafforzamento del principio di soccombenza nella liquidazione delle spese di giudizio.

Riguardo al punto 1), si è esteso il reclamo finalizzato alla mediazione (art. 17-bis del decreto) a tutte le controversie indipendentemente dall’ente impositore (finora l’istituto era riservato alle sole cause dell’Agenzia delle Entrate).

In particolare, con l’estensione del reclamo alle controversie degli enti locali, si spera di ottenere una consistente riduzione del relativo contenzioso.

Si è ritenuto al momento di lasciare inalterato il tetto di 20.000 euro di valore delle cause per le quali è obbligatorio il reclamo, anche in considerazione del fatto che il tetto è idoneo a ricomprendere la quasi totalità delle cause degli enti locali (il 75% delle quali è di valore inferiore ai 3.000 euro).

Il reclamo è stato inoltre esteso anche alle controversie catastali (classamento, rendite ecc.) che, a causa del valore indeterminabile ne sarebbero state escluse, e dal punto di vista soggettivo è stato esteso sia agli Agenti della riscossione (Equitalia) che ai soggetti iscritti nell’albo di cui all’art. 53 del D.lgs. n. 446/1997 (i concessionari della riscossione, per gli enti che non si avvalgono dell’Agente Equitalia).

Infine, con le modifiche apportate all’articolo 17-bis, anche le controversie proposte avverso atti reclamabili possono essere oggetto di conciliazione; ciò al fine di potenziare gli istituti deflattivi sia nella fase anteriore alla instaurazione del giudizio che in pendenza di causa.

La conciliazione è stata estesa anche al giudizio di appello.

Le relative disposizioni sono state riformulate allo scopo di eliminare dubbi interpretativi e per ricomprendervi espressamente anche i casi di accordi che prevedono pagamenti in favore del contribuente (nelle controversie su rimborsi).

2) La tutela cautelare è stata estesa a tutte le fasi del processo, codificando la giurisprudenza che solo da alcuni anni l’aveva ritenuta pienamente ammissibile, sia della Corte di Cassazione sia della Corte Costituzionale.

È stato così previsto:

  1. a) che il contribuente può sempre chiedere la sospensione dell’atto impugnato in presenza di un danno grave ed irreparabile;
  2. b) che le parti possono sempre chiedere la sospensione degli effetti della sentenza sia di primo grado che di appello, analogamente a quanto previsto nel codice di procedura civile;
  3. che il giudice può subordinare i provvedimenti cautelari ad idonea garanzia, la cui disciplina di dettaglio è rimessa a un Decreto Ministeriale; ciò consentirà di eliminare, o quantomeno ridurre notevolmente, le contestazioni tra le parti sulla idoneità della garanzia stessa.

3) L’applicazione del principio di immediata esecutività delle sentenze è stato recepito tenendo conto delle peculiarità del processo tributario, strutturato pur sempre come un giudizio amministrativo di impugnazione di atti autoritativi, ancorchè nei confronti di un giudice che ha cognizione piena del rapporto.

Si è quindi stabilito quanto segue.

  1. a) L’esecutività riguarda le sole sentenze aventi ad oggetto l’impugnazione di un atto impositivo, ovvero un’azione di restituzione di tributi in favore del contribuente. Per le altre controversie (invero di numero esiguo), quali ad esempio quelle sulla qualifica di ONLUS, ovvero su esenzioni fiscali, sulle rendite catastali ecc., si è mantenuto, invece, il principio della coincidenza tra esecutività e giudicato. Ciò allo scopo di una maggiore certezza delle situazioni D’altro canto per lo stesso motivo anche nel processo civile esistono categorie di sentenze (in particolare quelle costitutive o traslative della proprietà) per le quali l’efficacia è subordinata al giudicato.

La giurisprudenza è costante nel ritenere, ad esempio, che nei casi di una controversia sull’esenzione da un tributo, l’Amministrazione, all’esito del giudizio ad essa sfavorevole, deve provvedere d’ufficio al rimborso di quanto versato medio tempore dal contribuente in base all’atto annullato (Cass. 1967/2005; n. 24408/2005; n. 10010/2006).

  1. b) L’esecutività della sentenza in favore dell’Amministrazione avrebbe consentito di esigere l’intero tributo già dopo la sentenza di primo grado (attualmente l’art. 68 del decreto prevede che ne diventino esigibili solo i 2/3). Si è, giustamente, lasciato inalterato il meccanismo della riscossione frazionata del tributo previsto dall’articolo 68, sul presupposto che l’intenzione del legislatore non fosse quella di aggravare la situazione dei contribuenti nell’ambito di un contenzioso ancora “sub judice”. Tale scelta, inoltre, viene a bilanciare il maggior onere a carico del contribuente per quel che concerne l’esecuzione delle sentenze di rimborso a suo favore.
  2. c) L’esecutività immediata delle sentenze di condanna in favore del contribuente. L’attuazione di tale importante, e del tutto innovativo principio (ad oggi l’esecutività per tali pronunce si realizza solo con il giudicato), ha dovuto tener conto delle peculiarità del giudizio tributario, che vede contrapposti una parte pubblica ed una privata.

Ne consegue che mentre per la prima non vi sono di norma problemi di insolvenza, per la parte privata occorre tener conto di tale possibilità, e cioè del rischio che una volta ottenuto in virtù di una sentenza esecutiva, ma impugnata dall’Amministrazione, il pagamento di una somma a titolo di rimborso, non sia più possibile il recupero delle somme erogate in caso di successiva riforma della sentenza. Da ciò la scelta di subordinare il pagamento di somme in favore del contribuente ad una idonea garanzia, il cui onere graverà comunque sulla parte che risulterà definitivamente soccombente nel giudizio, con le seguenti eccezioni:

– pagamenti di somme fino a 10.000 euro;

– restituzione delle somme pagate in corso di causa, a norma dell’art. 68, comma 2, del decreto (qualunque sia l’importo).

In questi casi, pertanto, l’esecutività della sentenza sarà incondizionata.

Ovviamente, il contribuente resterà libero di non chiedere l’immediata esecuzione della sentenza (qualora non intenda anticipare gli oneri della garanzia o anche solo per non dover rischiare di restituire le somme ottenute con gli interessi) e di preferire l’attesa di un giudicato che gli consentirà di ottenere quanto gli spetta, con gli interessi di legge medio tempore maturati, senza fornire alcuna garanzia.

  1. d) Modalità di esecuzione della sentenza.

Sempre la peculiarità del processo tributario ha fatto ritenere preferibile la scelta del giudizio di ottemperanza come esclusivo sistema di esecuzione di tutte le sentenze, definitive e non (novità assoluta).

Si è, pertanto, stabilito che lo strumento previsto dall’art. 70 del decreto sia utilizzabile:

  • per l’esecuzione delle sentenze passate in giudicato;
  • per l’esecuzione delle sentenze anche solo esecutive;
  • per ottenere il rimborso delle somme da restituire al contribuente ai sensi dell’art. 68 comma 2.

Si è, inoltre, previsto che per i rimborsi fino a 20.000 euro e quelli relativi alle spese di lite la Commissione operi in sede di ottemperanza come giudice monocratico (data la relativa semplicità della esecuzione della sentenza, in cui non è necessaria neppure la garanzia), con ciò attuando parzialmente la delega sul punto.

La scelta della esclusività del giudizio di ottemperanza come unico strumento per la esecuzione delle sentenze è giustificata:

– dalla peculiarità delle sentenze emesse nel processo tributario, dove spesso anche il calcolo delle somme dovute a titolo di rimborso di imposta non è agevole, essendo necessaria, comunque, un’attività dell’ufficio per la determinazione degli interessi per i vari periodi interessati; inoltre, la necessità di una garanzia per le condanne in favore del contribuente al rimborso di somme superiori a 20.000 euro, avrebbe creato notevoli problemi alle segreterie per il rilascio delle formule esecutive, non potendosi pretendere da tali uffici un controllo sulla idoneità della garanzia stessa;

– dalla particolare efficacia della procedura di ottemperanza, che consente anche con la nomina di un commissario ad acta di ottenere in tempi relativamente brevi l’adempimento dell’Amministrazione, con il rimborso delle relative spese (rinvio ad un mio articolo sull’argomento consultabile sul mio sito);

– dal fatto che l’ordinaria procedura esecutiva (oltre ad aggravare lo stato della giustizia civile), non garantisce spesso il soddisfacimento dell’interesse del contribuente, anche per le note difficoltà di agire in via esecutiva sui beni dei soggetti pubblici.

Si è deciso, infine, che lo strumento dell’ottemperanza, sia di sentenza definitiva che solo esecutiva, può essere utilizzato anche nei confronti degli Agenti della riscossione e dei soggetti iscritti nell’albo di cui all’articolo 53 del D.Lgs. n. 446/1997, stante la natura pubblica dell’Agente e l’attività oggettivamente pubblica posta in essere dai concessionari (privati).

  • Per quanto concerne la revisione delle soglie di valore delle controversie in relazione alle quali il contribuente può stare in giudizio anche personalmente, si è previsto l’innalzamento da 2.582,28 euro a 000 euro; si è, inoltre, ampliata la categoria dei soggetti abilitati alla difesa tecnica inserendo anche i dipendenti dei CAF per le controversie che scaturiscono da adempimenti posti in essere dagli stessi centri di assistenza fiscale.
  • Si è poi rafforzato il principio in base al quale le spese di lite seguono sempre la soccombenza, introducendo l’obbligo per il giudice tributario di attenersi alle disposizioni contenute nell’articolo 92, secondo comma, del c.p.c., come modificato dalla legge 10 novembre 2014, n. 162; il suddetto principio è esteso anche alla fase cautelare in cui il giudice è tenuto a decidere anche sulle spese di

6) Come detto in precedenza, il legislatore con la presente novella non ha ritenuto di inserire la testimonianza, anche se la Corte Costituzionale con la sentenza n. 18 del 21 gennaio 2000 e la Corte di Cassazione – Sezione VI – con l’ordinanza n. 5018 del 12 marzo 2015 hanno ritenuto la possibilità di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale con il valore proprio degli elementi indiziari.

Appunto per questo è auspicabile che quanto prima sia ammessa la testimonianza ed il giuramento nel processo tributario.

Infatti, nell’attuale sistema processuale tributario, nonostante una timida apertura giurisprudenziale, non può certo ritenersi raggiunta una assoluta parità tra le parti processuali pubbliche e private.

Invero, occorre ricordare che, “mentre l’amministrazione finanziaria è fornita di poteri sanzionatori nei confronti dei terzi ai quali rivolgere richieste di <<dati, notizie e chiarimenti>> (che, se contenuti in un processo verbale, godono degli effetti probatori attribuiti agli atti pubblici dall’art. 2700 del codice civile), analoghi poteri non spettano al privato, il quale dovrà sperare nella buona volontà del terzo a sottoscrivere una dichiarazione concernente fatti a lui favorevoli” (in tal senso, giustamente, Prof. Avv. Colli Vignarelli, in Bollettino Tributario n. 8/2015, pagg. 565-568).

Ecco perché, de iure condendo, è auspicabile un ripensamento sul tema, considerato che per il contribuente potrebbe essere l’unica prova valida a sua disposizione, soprattutto in particolari circostanze.

I riferimenti si riferiscono agli articoli modificati ed integrati del Decreto Legislativo n. 546/1992 più volte citato nel presente articolo.

Oggetto della giurisdizione tributaria (Art. 2).

La modifica si è resa necessaria per adattare il testo alla sentenza n. 130/2008 della Corte Costituzionale, che ne aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale nella parte in cui attribuiva alla giurisdizione tributaria le controversie relative alle sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari, anche laddove esse conseguivano alle violazioni di disposizioni non aventi natura tributaria.

L’eliminazione delle parole “relative alla debenza del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dall’articolo 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni, e del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue e per lo smaltimento dei rifiuti urbani, nonché le controversie”, si è resa necessaria per adattare il testo alle sentenze n. 64/2008 e 39/2010 della Corte Costituzionale, che ne avevano dichiarato l’illegittimità costituzionale nella parte in cui attribuiva alla giurisdizione tributaria le controversie relative alla debenza del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dall’articolo 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni, e del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue.

Infine, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 19704 del 02 ottobre 2015, ha stabilito il seguente principio di diritto:

<<E’ ammissibile l’impugnazione della cartella (e/o del ruolo) che non sia stata (validamente) notificata e della quale il contribuente sia venuto a conoscenza attraverso l’estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta dal concessionario, senza che a ciò sia di ostacolo il disposto dell’ultima parte del terzo comma dell’articolo 19 D.Lgs. n. 546 del 1992, posto che una lettura costituzionalmente orientata di tale norma impone di ritenere che la ivi prevista impugnabilità dell’atto precedente e non notificato unitamente all’atto successivo notificato non costituisca l’unica possibilità di far valere l’invalidità della notifica di un atto del quale il contribuente sia comunque legittimamente venuto a conoscenza e pertanto non escluda la possibilità di far valere tale invalidità anche prima, nel doveroso rispetto del diritto del contribuente a non vedere senza motivo compresso, ritardato, reso più difficile ovvero più gravoso il proprio accesso alla tutela giurisdizionale quando ciò non sia imposto dalla stringente necessità di garantire i diritti o interessi di pari rilievo rispetto ai quali si ponga un concreto problema di reciproca limitazione>>.

le parti (art. 10).

Con le modifiche in esame sono state individuate puntualmente le parti del processo tributario. Trattasi del contribuente, delle Agenzie fiscali, degli altri enti impositori (ad esempio, le Regioni, gli Enti locali, le Camere di commercio, ecc.) e dell’agente di riscossione che hanno emesso l’atto impugnato (atto impositivo o diniego di rimborso o di agevolazione), ovvero che non hanno emesso l’atto richiesto (ad es, ipotesi di silenzio/rifiuto ad una richiesta di rimborso). Rientrano tra le parti processuali anche i soggetti privati di cui all’art. 53 del decreto legislativo n. 446 del 1997, che svolgono le attività di liquidazione e di accertamento, di riscossione dei tributi e di altre entrate delle province e dei comuni.

Si conferma la disposizione secondo la quale qualora l’ufficio dell’Agenzia delle entrate abbia una competenza diffusa su tutto o parte del territorio nazionale, individuata con il regolamento di amministrazione di cui all’articolo 71 dei decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, sta in giudizio innanzi alle Commissioni tributarie l’ufficio al quale spettano ex lege le attribuzioni sul rapporto controverso. In sostanza, in tale ultimo caso, la legittimazione processuale non è in capo all’ufficio delle entrate che ha adottato l’atto, bensì all’ufficio competente in base al generale criterio del domicilio fiscale del contribuente, risolvendo, in tal modo, tutte le questioni processuali quando è presente un Centro Operativo.

capacità di stare in giudizio (art. 10, comma 2).

Con la modifica viene estesa la capacità di stare in giudizio direttamente all’ufficio dell’Agente della riscossione, al pari degli uffici dell’Agenzia delle entrate e dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. Inoltre, la legittimazione processuale e la difesa diretta delle cancellerie e delle segreterie degli uffici giudiziari è prevista, limitatamente al contenzioso in materia di contributo unificato, non solo per il giudizio di primo grado ma anche per quello innanzi alle Commissioni tributarie regionali. Trattasi, infatti, di uffici che provvedono alla liquidazione e all’accertamento del contributo unificato di cui all’art. 9 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002 n. 115, che si configura come un vero e proprio tributo, rientrante in quanto tale nella giurisdizione tributaria.

L’assistenza tecnica (art. 12).

La disposizione in esame ribadisce la regola generale dell’obbligatorietà dell’assistenza tecnica nelle controversie tributarie, salvo i casi di contenziosi di modico valore.

Non sono, invece, tenuti a dotarsi di difensore abilitato gli enti impositori, gli agenti della riscossione e i soggetti di cui all’articolo 53 del decreto legislativo n. 446 del 1997. Con riguardo ai contenziosi di modico valore, il nuovo articolo 12 eleva a 3.000 euro il limite entro il quale i contribuenti possono stare in giudizio personalmente. Per l’individuazione del valore si conferma l’attuale criterio in base al quale il valore è determinato dall’importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l’atto impugnato; in caso di controversie aventi ad oggetto esclusivamente irrogazioni di sanzioni, il valore è costituito dalla somma di queste.

Il giudice, come più volte ha chiarito la Corte di Cassazione (sentenza n. 8025/2015 ed altre), deve ordinare alla parte di munirsi di assistenza tecnica fissando un termine entro il quale è tenuta a conferire l’incarico ad un difensore, quando il valore della causa supera i 3.000,00 euro.

L’inammissibilità può essere pronunciata solo dopo la mancata osservanza dell’ordine del giudice.

I commi 3, 5 e 6 dell’articolo 12 elencano distintamente le categorie di soggetti abilitati all’assistenza tecnica davanti alle Commissioni tributarie, operando una differenziazione tra:

  • coloro che possono assistere i contribuenti nella generalità delle controversie, chiarendo che sono abilitati all’assistenza tecnica tutti i soggetti iscritti nella Sezione A commercialisti dell’Albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili;
  • coloro che sono abilitati alla difesa con riguardo a controversie aventi ad oggetto materie specifiche;
  • coloro che possono assistere esclusivamente alcune categorie di contribuenti.

In particolare, con riguardo a tale ultima categoria, il comma 3 attribuisce anche ai dipendenti dei CAF di cui all’articolo 32 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, e delle relative società di servizi, la difesa innanzi alle Commissioni tributarie.

I predetti dipendenti possono difendere esclusivamente i propri assistiti in contenziosi tributari che scaturiscono dall’attività di assistenza loro prestata dal CAF (ad es. rettifica della detrazione di spese mediche esposte in dichiarazione compilata e trasmessa dal CAF).

La disposizione, tuttavia, prevede che i dipendenti dei CAF, per esercitare la difesa tecnica devono essere in possesso congiuntamente dei seguenti requisiti di professionalità:

  • diploma di laurea magistrale in giurisprudenza o in economia ed equipollenti, o del diploma di ragioneria;
  • relativa abilitazione professionale.

Le disposizioni contenute nel comma 4 dell’articolo 12 affidano al Dipartimento delle finanze il compito di gestire gli elenchi dei soggetti di cui alle lettere d), e), f), g) ed h) del comma 3.

L’accentramento delle procedure in capo al solo Dipartimento delle finanze di funzioni, attualmente ripartite tra il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia delle entrate, risponde all’esigenza di garantire imparzialità ed una maggiore efficienza nella gestione di detti elenchi.

Lo stesso comma 4 dell’articolo 12 del decreto prevede l’adozione di un regolamento del Ministro dell’Economia e delle finanze, sentito il Ministero della Giustizia, ai sensi dell’articolo 17 comma 3 della legge 23 agosto 1988, n. 400, al fine di disciplinare le modalità di tenuta dell’elenco in esame ed individuare i casi di incompatibilità, di diniego, di sospensione e di revoca della iscrizione all’elenco.

Per la definizione delle suddette fattispecie si dovrà tenere conto dei principi contenuti nel codice deontologico forense, atteso che nell’ambito dell’assistenza tecnica l’attività defensionale propria dell’avvocatura risulta essere prevalente.

Si prevede, altresì, che il citato elenco, opportunamente aggiornato, sia pubblicato nel sito internet del Ministero dell’economia e delle finanze al fine di renderlo costantemente conoscibile dalle parti processuali, dal collegio giudicante e dai terzi.

Fino all’approvazione del decreto restano applicabili le disposizioni previgenti di cui all’art. 12.

Il comma 10 dell’articolo 12 disciplina le ipotesi di difetto di rappresentanza o di autorizzazione, rinviando alle disposizioni contenute nell’articolo 182 del c.p.c, in base alle quali il giudice invita le parti a regolarizzare gli atti e documenti, assegnando un termine perentorio entro il quale è possibile sanare i relativi vizi, con efficacia retroattiva. Inoltre, il comma citato prevede che la predetta attività può essere svolta dal Presidente della Commissione ovvero della sezione e dal collegio. Al fine di evitare l’inutile prolungamento dei tempi del giudizio, si è anticipato quanto più possibile la regolarizzazione dell’eventuale vizio dell’atto processuale (ad es. difetto di procura alla lite) attribuendo indifferentemente l’iniziativa per la regolarizzazione già al Presidente della Commissione o della sezione (oltre che al collegio).

La declaratoria di inammissibilità del ricorso potrà essere pronunciata dal giudice tributario soltanto all’esito dell’inottemperanza all’invito formulato alla parte a provvedere. Ciò in conformità a quanto ripetutamente statuito dalla Corte di Cassazione, la quale ha precisato che, soltanto se l’invito del giudice risulta infruttuoso, quest’ultimo deve dichiarare invalida la costituzione della parte in giudizio (da ultimo: Cass. civ. Sez. III, 11-09-2014, n. 19169 e 22-05-2014, n. 11359).

Le Agenzie delle Entrate, delle Dogane e dei Monopoli di cui al decreto legislativo n. 300 del 30/07/1999 possono essere assistite dall’Avvocatura dello Stato.

Infine, la mancata certificazione dell’autografia da parte del difensore non è stata ritenuta dalla giurisprudenza ragione di nullità.

Infatti, la certificazione non è altro che una autenticazione che il difensore compie nella veste di pubblico ufficiale.

Spese del giudizio (art. 15).

La disposizione in esame mira a rafforzare il principio in base al quale le spese del giudizio tributario seguono sempre la soccombenza.

Il comma 1 dell’articolo 15 stabilisce che la parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio liquidate con la sentenza.

Il nuovo comma 2 dell’articolo 15 stabilisce che le spese di giudizio possono essere compensate in tutto o in parte soltanto qualora vi sia soccombenza reciproca oppure sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate dal giudice.

Con il comma 2-bis dell’articolo 15 si prevede che, nel caso risulti che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave, la Commissione tributaria la condanna, su istanza dell’altra parte, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni liquidati, anche d’ufficio, nella sentenza.

Si applicano soltanto le disposizioni di cui all’art. 96, comma 1°, del codice di procedura civile, che testualmente dispone:

“Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza”.

Il comma 2-ter dell’articolo 15 specifica che le spese di giudizio comprendono, oltre al contributo unificato, gli onorari ed i diritti del difensore, le spese generali e gli esborsi sostenuti, oltre al contributo previdenziale e all’IVA, se dovuti.

Il comma 2-quater dell’articolo 15 stabilisce che la statuizione sulle spese di lite deve essere contenuta anche nell’ordinanza con cui il giudice definisce la fase cautelare del giudizio. La pronuncia sull’istanza cautelare in ordine alle spese di giudizio produce effetti anche dopo l’adozione del provvedimento giurisdizionale che definisce il merito. Resta ferma, comunque, la possibilità per il giudice di disporre nella sentenza di merito diversamente in ordine alle spese di lite della fase cautelare.

Trattasi di una disposizione che, analogamente a quanto previsto dall’art. 57 del Codice del Processo Amministrativo, mira ad evitare un abuso delle richieste di tutela cautelare.

Con il comma 2-quinquies dell’articolo 15 viene confermato il principio secondo il quale i compensi spettanti agli incaricati dell’assistenza tecnica siano liquidati in base alle rispettive tariffe professionali; per i soggetti autorizzati all’assistenza tecnica dal Ministero dell’economia e delle finanze si applica, invece, la tariffa vigente per i dottori commercialisti ed esperti contabili.

Con il comma 2-sexies dell’articolo 15 si stabilisce che nella liquidazione delle spese a favore degli enti impositori, degli Agenti della riscossione e soggetti di cui all’art. 53 del decreto legislativo n. 446 del 1997, se assistiti da propri dipendenti, si applicano le tariffe previste per gli avvocati, con la riduzione del 20%.

Infine, con una disposizione di favore per il contribuente, si prevede che la riscossione delle somme liquidate a favore di tutti gli enti impositori, nonché degli agenti e concessionari della riscossione, avviene mediante iscrizione a ruolo soltanto dopo il passaggio in giudicato della sentenza.

Il comma 2-septies dell’articolo 15, infine, conferma che le spese di giudizio sono maggiorate del 50% nelle controversie proposte avverso atti reclamabili ai sensi dell’art. 17-bis. La maggiorazione è prevista a titolo di rimborso delle spese sostenute per la fase del procedimento amministrativo. La norma ha la duplice finalità di incentivare la mediazione, oggi estesa a tutti gli enti impositori, e di riconoscere alla parte vittoriosa i maggiori oneri sostenuti nella fase procedimentale obbligatoria ante causam.

Il comma 2-octies dell’articolo 15, al fine di incentivare la deflazione del contenzioso, stabilisce che la parte che abbia rifiutato, senza giustificato motivo, la proposta conciliativa formulata dall’altra parte è tenuta a sopportare le spese processuali quando il riconoscimento delle sue pretese risulti inferiore al contenuto della stessa proposta conciliativa.

Comunicazioni e notificazioni (art. 16).

Nell’art. 16 è stata fatta di nuovo applicazione del principio di equiparazione degli enti impositori all’Agente della riscossione ed ai soggetti iscritti nell’albo di cui all’articolo 53 del decreto legislativo n. 446 del 1997. Inoltre, è stato abrogato il comma 1-bis il cui contenuto è stato trasfuso in modo organico nel nuovo articolo 16-bis.

comunicazionI e notificazioni per via telematica (art. 16-bis).

La disposizione in commento è finalizzata al massimo ampliamento dell’uso della posta elettronica certificata per le comunicazioni e le notificazioni nel processo tributario in attuazione del relativo principio di delega.

Il comma 1 ripropone le disposizioni già previste nel comma 1-bis dell’articolo 16 abrogato.

Il comma 2 ripropone quanto previsto dall’articolo 17, comma 3-bis abrogato, e cioè che in caso di mancata indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata ovvero di mancata consegna del messaggio di posta elettronica certificata per cause imputabili al destinatario, le comunicazioni devono essere eseguite esclusivamente mediante deposito in segreteria della Commissione tributaria.

Il comma 3 dispone che le notificazioni tra le parti ed il successivo deposito presso la Commissione tributaria possono avvenire per via telematica tenendo conto di quanto stabilito nel regolamento sul processo tributario telematico n. 163 del 23 dicembre 2013. Le modalità di attuazione e l’ambito di operatività delle notificazioni a mezzo posta elettronica certificata e dei depositi telematici presso le Commissioni tributarie sono stabiliti dai decreti del Ministero dell’Economia e delle finanze adottati ai sensi dell’art. 3 del predetto regolamento.

Il comma 4 stabilisce che l’indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata per le comunicazioni e le notificazioni ha, a tutti gli effetti, valore di elezione di domicilio.

Il processo tributario telematico dall’01/12/2015 partirà in Toscana ed in Umbria, come stabilito dall’art. 16 del Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 04 agosto 2015 (protocollo 8962/2015/DF/DGT).

Il reclamo e la mediazione (art. 17-bis).

La disposizione in esame, limitatamente alle controversie aventi ad oggetto atti di valore non superiore a 20.000 euro, prevede che il ricorso diventa procedibile solo una volta trascorso il tempo utile (novanta giorni, oltre la sospensione feriale dei termini) ad esperire la procedura amministrativa volta alla composizione della lite. Diversamente dalla disposizione vigente, il nuovo meccanismo risulta in concreto attuato dalla previsione che il ricorso, proposto nelle forme di rito, produce anche gli effetti del reclamo, che può o meno contenere una dettagliata proposta di mediazione.

Quanto all’ambito di applicazione oggettivo dell’istituto, si conferma che sono soggette a reclamo tutte le controversie di valore non superiore ai 20.000 euro (ivi comprese quelle di rimborso, non espressamente previste nel testo attuale).

Inoltre, i commi 1 e 10 dell’art. 17-bis prevedono che non sono reclamabili esclusivamente gli atti di valore indeterminabile e gli atti di recupero di aiuti di stato di cui all’art. 47-bis.

È stata invece prevista la reclamabilità degli atti di cui all’art. 2, comma 2, primo periodo, relativi al classamento ed all’attribuzione di rendita catastale, pur essendo di valore indeterminabile.

Quanto, invece, all’ambito soggettivo di operatività della nuova disposizione, l’istituto è stato esteso a tutti gli enti impositori.

Inoltre, è sempre ammessa la conciliazione giudiziale.

La ratio sottesa all’estensione del reclamo risiede nel principio di economicità dell’azione amministrativa diretta a produrre effetti deflattivi del contenzioso

Tuttavia, mentre le Agenzie fiscali provvedono all’esame dei reclami attraverso apposite strutture diverse da quelle che hanno emesso gli atti reclamabili, per gli altri enti la disposizione prevede che l’individuazione della struttura eventualmente deputata alla trattazione dei reclami è rimessa all’organizzazione interna di ciascuno di essi. La scelta operata risulta da un lato coerente con l’autonomia gestionale ed organizzativa tipica, ad esempio, degli enti locali; dall’altro evita di imporre un vincolo ad enti impossibilitati a rispettarlo (ad esempio, a causa della ridotta dimensione).

Quanto invece agli Agenti della riscossione ed ai soggetti privati di cui all’articolo 53 del d.lgs. n. 446/97, il comma 9 della disposizione in esame prevede che il reclamo risulta applicabile solo ove compatibile. Tenuto conto che tali soggetti non hanno la disponibilità del tributo, si ritiene che l’istituto possa trovare applicazione nei casi, ad esempio, di vizi propri delle cartelle di pagamento da essi emesse, ovvero di impugnazione di fermi di beni mobili registrati o di ipoteche (art. 19, comma I, lett. e-bis) ed e-ter) del decreto). In sostanza, la disposizione in esame ha la finalità di consentire anche a detti soggetti di procedere al ritiro dei loro atti impugnati.

La modifica legislativa, però, non ha avuto il coraggio di affidare la definizione delle mediazioni ad un organismo veramente terzo e non inserito nella stessa struttura amministrativa che ha redatto e notificato l’atto.

Speriamo in un prossimo ripensamento legislativo.

Ai sensi del comma 6 del predetto articolo 17-bis, qualora la procedura amministrativa di reclamo abbia esito positivo, la mediazione si perfeziona con il versamento – entro il termine di venti giorni dalla data di sottoscrizione dell’accordo tra le parti – dell’intero importo ovvero della prima rata.

Per il versamento delle somme dovute si applicano le disposizioni, anche sanzionatorie, previste per l’accertamento con adesione dall’art. 8 del D.Lgs. n. 218 del 19/06/1997.

Diversamente, quando la mediazione ha per oggetto rimborsi d’imposta, la stessa si perfeziona sin dal momento della sottoscrizione dell’accordo.

Detto accordo deve contenere l’indicazione delle somme dovute con i termini e le modalità di pagamento e costituisce titolo per il pagamento delle somme dovute al contribuente. Detto titolo, quindi, consente al contribuente nei casi in cui la controparte non dia esecuzione al pagamento concordato di agire in via monitoria davanti al giudice ordinario per ottenere un decreto ingiuntivo. La giurisprudenza ha infatti precisato che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario quando l’Amministrazione abbia riconosciuto la definitiva spettanza del tributo (Cass. 15.10.2009 n. 21893).

Secondo quanto disposto dal comma 7 dell’articolo 17-bis, le sanzioni sono dovute nella misura del trentacinque per cento del minimo previsto dalla legge.

Trattasi del medesimo criterio di irrogazione della sanzione previsto nella conciliazione, fatta salva la diversa percentuale applicabile. Viene confermata la disposizione secondo la quale sulle somme dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali non si applicano sanzioni e interessi.

Infine, ai sensi del comma 8 dell’articolo in esame si prevede che, in pendenza del termine utile a concludere la mediazione, la riscossione delle somme dovute in base all’atto oggetto di contestazione è sospesa.

Nelle controversie di cui all’art. 17-bis le spese del giudizio sono maggiorate del 50 per cento a titolo di rimborso delle maggiori spese del procedimento.

Le disposizioni dell’art. 17-bis si applicano, in quanto compatibili, anche agli Agenti della riscossione ed ai soggetti iscritti nell’albo di cui all’art. 53 del D.Lgs. n. 446/1997, come precisato nei punti precedenti.

Il ricorso (art. 18).

Nell’art. 18 è stato riscritto il comma 3 sia per una maggiore leggibilità, sia per introdurre l’obbligo per i difensori di dichiarare la categoria di appartenenza ex art. 12 del decreto; tale indicazione è anche necessaria per consentire al giudice la liquidazione delle spese di lite secondo la tariffa della categoria di appartenenza.

Sospensione del processo (art. 39).

All’articolo 39, dopo il comma 1, sono stati aggiunti i commi 1-bis e 1-ter.

Il comma 1-bis dell’articolo 39 prevede che la sospensione del processo è disposta dalla Commissione tributaria ogni qual volta essa stessa o altra Commissione tributaria deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa.

E’ stato, in tal modo, riprodotto il contenuto dell’articolo 295 c.p.c., concernente la sospensione necessaria del processo.

Il comma 1-bis introduce, pertanto, un’ulteriore ipotesi di sospensione necessaria, che si aggiunge a quella già prevista dal comma 1, come ultimamente stabilito dalla Corte di Cassazione – Sesta Sezione Civile – con l’ordinanza n. 18062 del 14 settembre 2015, che ha ripreso la precedente sentenza n. 2214 del 31/01/2011 della stessa Corte di Cassazione – Sezione V.

Il comma 1-ter dell’articolo 39 stabilisce che, su richiesta conforme delle parti, il processo è sospeso nel caso in cui sia iniziata una procedura amichevole ai sensi delle Convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni oppure quando sia iniziata una procedura amichevole ai sensi della Convenzione sull’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate n. 90/463/CEE del 23 luglio 1990.

Estinzione del processo per rinuncia al ricorso (art. 44).

All’art. 44 comma 2 è stato eliminato l’inciso “che costituisce titolo esecutivo” in quanto l’unico strumento utilizzabile nell’ambito del decreto è ormai il giudizio di ottemperanza, anche per le spese legali in favore del contribuente. Diversamente per le spese liquidate in favore dell’ente impositore e degli altri soggetti equiparati, è prevista l’iscrizione a ruolo dopo il giudicato, come dispone il nuovo art. 15 comma 4, in precedenza commentato.

Estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere (art. 46).

Il comma 2 dell’art. 46 conferma che l’estinzione del giudizio in caso di cessazione della materia del contendere è dichiarata con sentenza o con decreto presidenziale.

Il comma 3 del predetto articolo individua il principio in base al quale, soltanto in caso di cessazione della materia del contendere per sopravvenuta definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge, le spese del giudizio rimangono a carico di chi le ha anticipate. La modifica si è resa necessaria per adeguare la disposizione alla sentenza della Corte Costituzionale n. 74 del 12 luglio 2005, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 46, comma 3, del decreto nella parte in cui prevedeva che le spese del giudizio estinto restavano a carico della parte che le aveva anticipate, non solo nei casi di definizione delle pendenze tributarie previste per legge, ma in ogni caso di cessazione della materia del contendere.

Sospensione dell’atto impugnato (art. 47).

La modifica del comma 3 dell’art. 47 è solo di forma; al comma 5 sempre dell’art. 47 si è richiamata la garanzia di cui all’art. 69 comma 2.

Al comma 4 dell’articolo 47 è stato aggiunto un nuovo periodo, nel quale si prevede che il dispositivo dell’ordinanza che decide sull’istanza di sospensione deve essere immediatamente comunicato alle parti in udienza.

Durante il periodo di sospensione cautelare si applicano gli interessi al tasso previsto per la sospensione amministrativa (comma 8-bis).

Conciliazione fuori udienza (art. 48).

Gli articoli 48, 48-bis e 48-ter sono diretti a disciplinare compiutamente le diverse tipologie di conciliazione giudiziale, rafforzando l’istituto con l’estensione della sua applicabilità anche ai giudizi pendenti davanti alla Commissione tributaria regionale, sino ad oggi preclusa.

La nuova disciplina consentirà la definizione di controversie per tutta la durata del giudizio di merito, anche se la mediazione si è risolta negativamente.

L’intento di incentivare il ricorso all’istituto della conciliazione è rinvenibile dalla nuova entità delle sanzioni irrogabili. Infatti, la disposizione attualmente vigente prevede non solo che l’irrogazione della sanzione è dovuta nella misura del 40% dell’importo conciliato, ma le sanzioni non possono essere inferiori al 40 per cento dei minimi edittali previsti per le violazioni più gravi relative a ciascun tributo.

Diversamente, la nuova formulazione prevede che le sanzioni si applicano nella misura del quaranta per cento del minimo previsto per legge per le singole violazioni; tale percentuale è la medesima quale che sia la fase di giudizio in cui la causa viene conciliata.

Non è prevista la conciliazione nella fase di Cassazione, anche se è auspicabile un ripensamento legislativo, trattandosi pur sempre di un giudizio pendente che le parti potrebbero intendere bonariamente definire per difficoltà interpretative delle norme o per contrasti giurisprudenziali.

Il comma 1 dell’articolo 48 disciplina la c.d. conciliazione “fuori udienza” prevedendo che se le parti raggiungono un accordo conciliativo per la definizione totale o parziale della controversia, in pendenza del giudizio di primo e di secondo grado, possono presentare istanza congiunta sottoscritta dagli stessi o dai rispettivi difensori.

In caso di conciliazione totale o parziale della controversia, i commi 2 e 3 dell’art. 48 prevedono la tipologia dei provvedimenti che possono essere adottati dal giudice per dichiarare la cessazione della materia del contendere

Qualora sia stata già fissata l’udienza, la Commissione pronuncia sentenza ovvero ordinanza se l’accordo è parziale; in tale ultimo caso la sentenza sarà adottata, infatti, al termine del giudizio di merito per le questioni che non sono state oggetto di conciliazione.

Se, invece, la data di udienza non è fissata, provvede il Presidente di sezione con apposito decreto.

Il successivo comma 4 del predetto articolo stabilisce che la conciliazione si perfeziona con la sottoscrizione dell’accordo; detto accordo costituisce titolo per la riscossione delle somme dovute.

A differenza della vigente disciplina, il perfezionamento dell’accordo avviene non più con il versamento dell’importo totale dovuto o della prima rata, bensì con la mera sottoscrizione dell’accordo.

In sostanza si è stabilito il principio secondo cui l’intervenuto accordo ha efficacia novativa del precedente rapporto, con la conseguenza che il mancato pagamento delle somme dovute dal contribuente porterà solo alla iscrizione a ruolo del nuovo credito derivante dall’accordo stesso. In caso di mancato pagamento delle somme dovute dall’ente impositore vale invece quanto già detto per l’accordo di mediazione di cui all’art. 17-bis in ordine al concetto di titolo.

Conciliazione in udienza e Definizione e pagamento delle somme dovute a titolo di imposta e di sanzioni (artt. 48-bis e 48-ter).

Con l’articolo in esame, al comma 1 si riconosce a ciascuna delle parti la possibilità, entro il termine di dieci giorni prima della data fissata per l’udienza di discussione, di presentare alla Commissione tributaria davanti alla quale pende la causa l’istanza per la conciliazione totale o parziale della controversia, anche se la mediaizone si è risolta negativamente.

Il comma 2 del predetto articolo stabilisce che il giudice, se ritiene che sussistano i presupposti di ammissibilità dell’istanza (ammissibilità del ricorso introduttivo, imposte di competenza della Commissione tributaria, esistenza del potere di conciliare ecc..), invita le parti alla conciliazione; qualora l’accordo conciliativo non si realizzi alla prima udienza di trattazione, il giudice può, comunque, concedere alle parti un rinvio e fissare una nuova successiva udienza, per l’eventuale perfezionamento dell’accordo conciliativo ovvero, in mancanza, per la discussione della causa nel merito.

Infine, il comma 3 dispone che la conciliazione deve risultare da apposito processo verbale nel quale sono indicate le somme dovute a titolo d’imposta, di sanzioni e interessi; detto verbale costituisce titolo per la riscossione delle somme dovute all’ente impositore e per il pagamento delle somme dovute al contribuente.

In base al comma 4 della disposizione in esame, in caso di avvenuta conciliazione in udienza, il giudizio si chiude con sentenza di cessata materia del contendere.

L’articolo 48-ter disciplina il pagamento delle somme dovute a titolo di conciliazione, stabilendo la percentuale delle sanzioni dovute, le modalità di versamento e di recupero delle somme non versate. Trattasi di disposizioni comuni alla conciliazione perfezionatasi in udienza e fuori udienza.

Il comma 1 del predetto articolo stabilisce che in caso di conciliazione le sanzioni amministrative si applicano nella misura del quaranta per cento del minimo previsto dalla legge se la conciliazione si perfeziona nel corso del primo grado di giudizio e nella misura del cinquanta per cento se la conciliazione si perfeziona nel corso del secondo grado di giudizio.

Trattasi del medesimo criterio di determinazione della sanzione previsto nella mediazione, fatta salva l’incremento della percentuale applicabile, posto che la definizione della controversia avviene in una fase successiva del giudizio.

La nuova possibilità di poter conciliare anche in appello determina, altresì, un cambio di strategia processuale, perché nel giudizio di secondo grado si dovrà sicuramente tener conto della decisione dei giudici tributari che, se favorevole in tutto o in parte al contribuente, potrà determinare una sensibile e più favorevole riduzione della materia imponibile rispetto al primo grado, con le sanzioni sensibilmente ridotte.

Il comma 2 dell’art. 48-ter dispone che il versamento dell’intero importo o della prima rata deve essere effettuato entro venti giorni dalla data di sottoscrizione dell’accordo per la conciliazione fuori udienza, ovvero della redazione del processo verbale per la conciliazione in udienza.

In caso di mancato pagamento delle somme dovute o di una delle rate, compresa la prima, entro il termine di pagamento della rata successiva, il competente ufficio provvede all’iscrizione a ruolo delle residue somme dovute a titolo d’imposta, interessi e sanzioni, nonché della sanzione di cui all’art. 13 del D.lgs. n. 471 del 18/12/1997, aumentata della metà e applicata sul residuo importo dovuto a titolo di imposta.

Per il versamento rateale delle somme dovute si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni previste per l’accertamento con adesione dall’art. 8 del D.Lgs. n. 218 del 19/06/1997.

Disposizioni generali applicabili (art. 49, comma 1).

L’eliminazione dell’inciso “escluso l’art. 337” si è resa necessaria in quanto la disposta esecutività delle sentenze tributarie rende non più incompatibile la citata disposizione del c.p.c.; inoltre, il comma 2 dell’art. 337 è ritenuto ormai applicabile anche al processo tributario dalla giurisprudenza (Cass. 17.10.2014 n. 21996), nonostante alcune Commissioni tributarie di merito fossero di contrario avviso.

Giudice competente e provvedimenti sull’esecuzione provvisoria in appello (art. 52).

All’art. 52 viene modificata la denominazione e sono scritti sei commi che disciplinano i poteri cautelari delle parti dopo una pronuncia di primo grado.

In particolare, la sospensione della sentenza è subordinata all’esistenza di “gravi e fondati motivi” al pari dell’art. 283 c.p.c.

Il succitato art. 283 c.p.c. è stato sostituito dall’art. 2, comma 1, lettera q), della Legge n. 263 del 28 dicembre 2005.

In base alla dottrina prevalente, oggi la lettera della novellata norma chiarisce la necessità della sussistenza di entrambi i requisiti del fumus e del periculum, con la conseguenza che, nella delibazione sommaria, dovrà valutarsi sia la fondatezza dell’impugnazione sia la valutazione del pregiudizio patrimoniale che il soccombente potrebbe subire dall’esecuzione della sentenza.

Il potere discrezionale riconosciuto al giudice di appello per la concessione della sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza emessa nel giudizio di primo grado è oggettivamente più ampio di quello riconosciuto al giudice di primo grado.

Infatti, l’art. 283 c.p.c., nella sua formulazione letterale, prescinde dalla valutazione del danno.

Esso, invece, collima con quanto previsto dall’art. 431 c.p.c., in punto di sospensione dell’efficacia della sentenza di primo grado pronunciata nel processo del lavoro in favore del datore di lavoro.

Ancora, la novella del 2005 chiarisce che la valutazione deve essere effettuata dal giudice anche in relazione alla difficoltà di ottenere eventualmente la restituzione di quanto pagato.

I suddetti principi dovranno essere applicati anche nel processo tributario, a seguito della novella processuale oggetto del presente articolo.

 La sospensione dell’atto impugnato, invece, resta subordinata all’esistenza di un danno grave e irreparabile, cioè agli stessi presupposti previsti dall’art. 47 per la sospensione in primo grado. Viene introdotta la possibilità, per il Presidente, di sospendere la sentenza inaudita altera parte fino alla pronuncia cautelare del Collegio.

Il Collegio, sentite le parti in camera di consiglio e delibato il merito, provvede con ordinanza motivata non impugnabile.

La sospensione può essere subordinata alla prestazione della garanzia di cui all’art. 69, comma 2, già citato.

Nel secondo periodo del comma 6 dell’articolo 52 si prevede l’applicabilità dell’art. 47, comma 8-bis, sulla debenza degli interessi per ritardato pagamento.

Inoltre, per quanto riguarda il giudizio in appello, si precisa che in sede di deposito presso la segreteria della Commissione tributaria adita bisogna depositare insieme all’atto di appello notificato anche la ricevuta di spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale, pena l’inammissibilità dell’appello, che può essere rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del processo, né è sanabile per via della costituzione del convenuto (da ultimo, Corte di Cassazione, sentenza n. 18121 del 15/09/2015; vedi anche Cassazione, sentenza n. 19623/2015, depositata l’01/10/2015).

Infine, la Corte di Cassazione, Sez. VI Civile – T, con l’Ordinanza n. 10145 del 18/05/2015, ha precisato che, anche nel processo tributario, specificatamente ai sensi dell’art. 60 del D. Lgs. n. 546/1992 (che riproduce la formulazione letterale dell’art. 358 c.p.c.), è applicabile il principio in virtù del quale la consumazione dell’impugnazione, che ne preclude la riproposizione anche nell’ipotesi in cui non sia ancora scaduto il termine stabilito dalla legge, opera soltanto ove sia intervenuta una declaratoria di inammissibilità, con la conseguenza che, fino a quando siffatta declaratoria non sia intervenuta, può essere proposto un nuovo atto di appello, immune dai vizi del precedente e destinato a sostituirlo, purchè la seconda impugnazione risulti tempestiva, in rapporto al termine breve decorrente, in caso di mancata notificazione della sentenza, dalla data di proposizione del primo appello, che equivale alla conoscenza legale della sentenza da parte dell’impugnante.

ricorso “per saltum” (art. 62).

All’art. 62 è stato aggiunto il comma 2-bis, prevedendo che, sull’accordo delle parti, la sentenza della Commissione tributaria provinciale può essere impugnata con ricorso per Cassazione a norma dell’art. 360, primo comma, n. 3, del codice di procedura civile.

L’inserimento del c.d. ricorso “per saltum” anche nel processo tributario si ritiene possa avere un’utile funzione deflattiva del contenzioso, consentendo in tempi brevi una pronuncia della Corte di Cassazione su questioni giuridiche appena sorte in primo grado.

Provvedimenti sull’esecuzione provvisoria della sentenza impugnata per Cassazione (art. 62-bis).

L’art. 62-bis disciplina i “Provvedimenti sull’esecuzione provvisoria della sentenza impugnata per Cassazione”.

In questo caso, la sospensione però è subordinata all’esistenza di un danno grave ed irreparabile. La formulazione è analoga a quella contenuta nell’art. 373 c.p.c. (“Il ricorso per Cassazione non sospende l’esecuzione della sentenza. Tuttavia il giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata può, su istanza di parte e qualora dall’esecuzione possa derivare grave e irreparabile danno, disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione sia sospesa o che sia prestata congrua cauzione”) che attribuisce rilievo al solo periculum senza possibilità di valutare il fumus, coerentemente alla natura della sospensione della sentenza d’appello che viene richiesta allo stesso giudice, il quale non tratterà il merito della causa.

Nel secondo periodo del comma 5 si prevede l’applicabilità dell’art. 47, comma 8-bis, sulla debenza degli interessi per ritardato pagamento.

In ogni caso, la Commissione non può pronunciarsi sulla sospensiva se la parte istante non dimostra di avere depositato il ricorso per Cassazione contro la sentenza.

Infine, è opportuno ricordare che si paga un contributo unificato raddoppiato se il ricorrente in Cassazione è interamente soccombente.

E’ la conseguenza dell’applicazione della nuova norma introdotta con la Legge di stabilità per il 2013 (Legge n. 228/2012).

Si tratterà di verificare se lo stesso rigore nei confronti del contribuente sarà adottato anche quando sarà l’amministrazione finanziaria a vedersi respingere integralmente l’impugnazione.

ALCUNE PRECISAZIONI IN MERITO AI TERMINI DI IMPUGNAZIONE DELLE SENTENZE.

E’ molto importante stabilire la data di decorrenza dei termini per gli appelli e per i ricorsi per Cassazione.

Può, infatti, accadere che sulla sentenza ci siano due date differenti, quella del deposito e quella della pubblicazione della sentenza, in entrambi i casi effettuate con apposizione di timbro e firma del segretario o del cancelliere.

In base all’art. 327 c.p.c. bisogna stabilire quale delle due è da prendere in considerazione per il dies a quo per gli appelli.

A tal proposito, si è formata la seguente giurisprudenza:

  • la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 13794 del 2012, ha enunciato il principio secondo cui <<ove sulla sentenza siano state apposte due date, una di deposito, senza espressa specificazione che il documento contiene soltanto la minuta del provvedimento, e l’altra di pubblicazione, tutti gli effetti giuridici derivanti dalla pubblicazione della sentenza decorrono già dalla data del suo deposito>>; a temperare gli esiti del suddetto principio, le stesse Sezioni Unite hanno evidenziato che <<qualora il giudice dell’impugnazione ravvisi, anche d’ufficio, grave difficoltà per l’esercizio del diritto di difesa determinata dall’avere il cancelliere non reso conoscibile la data di deposito della sentenza prima della pubblicazione della stessa avvenuta a notevole distanza di tempo ed in prossimità del termine di decadenza per l’impugnazione, la parte potrà essere rimessa in termini ai sensi dell’art. 153, comma 2, c.p.c.;
  • da ultimo, è intervenuta la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 3 del 2015, che conferma che ai fini dell’impugnazione rileva sempre e soltanto la data di deposito ma al tempo stesso riconosce l’automatica rimessione in termini quando il contribuente, senza colpa, abbia fatto affidamento sulla data di pubblicazione; in sostanza, la Corte Costituzionale conferma la valorizzazione del ricorso al rimedio, sempre ed in automatico, della rimessione in termini per causa non imputabile alla parte, con una prospettiva rovesciata rispetto a quella assunta dalle Sezioni Unite di cui sopra, e che perciò diventa il canone ordinario e non più l’estrema ratio; questa interpretazione è stata ripresa dalla Corte di Cassazione, Sezione Sesta e Sezione Seconda, con le sentenze n. 10675 e n. 11129 del 2015, con una impostazione costituzionalmente orientata nel senso di rendere vincolante l’adozione del provvedimento di rimessione in termini, che, invece, nella prospettiva delineata dalle Sezioni Unite con la succitata sentenza n. 13794 del 2012, rimane subordinata al ricorrere di particolari e specifiche circostanze, peraltro da documentare in modo preciso.

Tenuto conto del contrasto interpretativo circa l’automatismo o meno della rimessione in termini, ultimamente la Corte di Cassazione – Seconda Sezione Civile -, con l’ordinanza interlocutoria n. 18775 del 23 settembre 2015, ha rimesso gli atti al primo Presidente perché valuti l’opportunità di assegnare la questione interpretativa alle Sezioni Unite.

Alla luce delle delicate questioni processuali di cui sopra, pur in attesa della pronuncia a Sezioni Unite della Corte di Cassazione, è consigliabile da parte del difensore usare la massima attenzione, tenendo conto esclusivamente della data del deposito, anche attivandosi presso le segreterie delle Commissioni tributarie.

Giudizio di rinvio (art. 63).

Nell’art. 63, al comma 1, il termine per la riassunzione del giudizio dopo la Cassazione con rinvio della sentenza, è stato ridotto da un anno a sei mesi.

La riduzione è opportuna tenuto conto da un lato di quella già operata per tutte le cause civili dal codice di procedura civile. (il cui art. 393 prevede un termine per la riassunzione di soli tre mesi), dall’altro che il termine dì sei mesi coincide con quello già previsto dall’art. 43 del decreto per la riassunzione del giudizio interrotto o sospeso. Non si è ritenuta opportuna la riduzione a tre mesi, termine eccessivamente breve, tenuto conto dei notevoli pregiudizi (la definitività dell’atto impugnato) che il contribuente può subire per effetto della mancata riassunzione della causa dopo la sentenza di annullamento con rinvio.

Sentenze revocabili e motivi di revocazione (art. 64).

All’art. 64 del decreto, in tema di revocazione, è stato riformulato il comma I, allo scopo di eliminare le incertezze interpretative cui aveva dato luogo il testo vigente.

L’istituto della revocazione si inquadra tra i mezzi di impugnazione ma è possibile soltanto in presenza di una sentenza che lamenti vizi particolarmente gravi derivanti dai motivi tassativamente indicati nell’art. 395 del codice di procedura civile.

A tal proposito, si citano le seguenti sentenze della Corte di Cassazione:

  • Tributaria, sentenza n. 18027 del 09/09/2005;
  • Tributaria, sentenza n. 15319 del 29/11/2000;
  • UU., sentenza n. 5303 del 12/06/1997;
  • Tributaria, sentenza n. 6511 del 25/05/2005.

REVOCAZIONE E SOSPENSIONE (art. 65).

In applicazione della delega sui poteri cautelari delle parti, è stato introdotto all’art. 65 il comma 3-bis il quale prevede che le parti possono proporre istanze cautelari ai sensi delle disposizioni di cui all’art. 52, in quanto compatibili.

Si è ritenuto preferibile estendere al ricorso per revocazione la tutela cautelare prevista nell’art. 52 per le sentenze di primo grado, non ostandovi ragioni per la più limitata tutela dell’art. 62-bis, tenuto conto che la revocazione, a differenza del ricorso per Cassazione, è decisa nel merito dalla stessa Commissione.

Esecuzione provvisoria (art. 67-bis dal 01/06/2016).

È stato introdotto l’art. 67-bis il quale prevede espressamente che “Le sentenze emesse dalle commissioni tributarie sono esecutive secondo quanto previsto dal presente capo”.

Trattasi di una nuova disposizione, attesa la necessità di introdurre un principio generale che riconosca l’esecutività immediata delle sentenze tributarie emesse dalle Commissioni tributarie provinciali e regionali, equiparandole a quelle adottate nel giudizio civile e amministrativo. L’espresso rinvio nel presente articolo alle sentenze contenute nel capo IV consente di limitare l’esecutività alle sole sentenze aventi ad oggetto l’impugnazione di un atto impositivo ovvero il diniego espresso o tacito alla restituzione di tributi.

Pagamento del tributo in pendenza del processo (art. 68).

All’art. 68, al comma 1, è stata introdotta la lettera c-bis), allo scopo di precisare che nei casi in cui è prevista la riscossione frazionata del tributo oggetto di giudizio davanti alle Commissioni, l’imposta con i relativi interessi deve essere pagata per l’ammontare dovuto nella pendenza del giudizio di primo grado dopo la sentenza della Corte di Cassazione di annullamento con rinvio e per l’intero importo indicato nell’atto in caso di mancata riassunzione.

Si è in tal modo colmata una lacuna legislativa in ordine ai poteri degli enti impositori di riscuotere il tributo dopo una sentenza della Corte di Cassazione di annullamento con rinvio, che ad oggi porta gli uffici ad agire in modo diversificato (talvolta con la iscrizione a ruolo dell’intero importo).

Come già accennato, la scelta è stata quella di consentire la riscossione del tributo nella misura prevista nella pendenza del giudizio di primo grado.

Si è, altresì, codificato il principio costantemente affermato dalla giurisprudenza, secondo cui in caso di omessa riassunzione dopo il rinvio si estingue l’intero giudizio e diventa definitivo l’atto originariamente impugnato. Anche di recente la Corte di Cassazione ha infatti ribadito che “nel giudizio tributario, ove nessuna delle parti si sia attivata per la riassunzione ai sensi dell’art. 392 c.p.c. l’intero processo si estingue, determinandosi la definitività dell’avviso di accertamento che ne costituiva l’oggetto (Cass. n. 16689/2013). L’estinzione del giudizio ex art. 393 c.p.c. comporta, infatti, il venir meno dell’intero processo, ed in forza dei principi in materia d’impugnazione dell’atto tributario, la definitività dell’avviso di accertamento e l’integrale accoglimento delle ragioni erariali (Cass. n. 5044/2012 e in precedenza Cass. n. 3040 del 2008 e n. 1824 del 2005)” (Cass. 9.7.2014 n. 15643). L’espressa previsione degli effetti della mancata riassunzione ha lo scopo di rendere chiare, soprattutto ai contribuenti, le conseguenze pregiudizievoli che derivano dalla mancata riassunzione del giudizio, indipendentemente da quale parte sia risultata vittoriosa in Cassazione.

In ogni caso, è auspicabile un ripensamento sul tema, tenuto conto dei gravi effetti conseguenti alla definitività degli avvisi di accertamento.

Sempre nell’art. 68 è stato modificato il comma 2 integrandolo con la previsione che, in caso di mancata esecuzione del rimborso, il contribuente può richiedere l’ottemperanza a norma dell’articolo 70 alla Commissione tributaria provinciale ovvero, se il giudizio è pendente nei gradi successivi, alla Commissione tributaria regionale.

Anche in questo caso si viene a colmare una lacuna, che vedeva il contribuente del tutto privo di rimedi giuridici di fronte all’inerzia dell’ente impositore, che, all’esito di una sentenza anche non definitiva favorevole al contribuente, ometteva di eseguire in suo favore il rimborso delle somme medio tempore riscosse. Il rimedio previsto è dunque quello della ottemperanza, con una specifica previsione in ordine al giudice competente, anche al fine di evitare eventuali incertezze sulla individuazione della Commissione da adire.

Esecuzione delle sentenze di condanna in favore del contribuente (art. 69 dal 01/06/2016).

L’art. 69 è stato completamente riscritto e denominato “Esecuzione delle sentenze di condanna in favore del contribuente”.

Le sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente e quelle emesse sul ricorso avverso gli atti relativi alle operazioni catastali indicate nell’art. 2, comma 2, sono immediatamente esecutive, anche se non passate in giudicato, come precisato in precedenza.

Tuttavia il pagamento di somme dell’importo superiore a 10.000 euro, diverse dalle spese di lite, può essere subordinato dal giudice, anche tenuto conto delle condizioni di solvibilità dell’istante, alla prestazione di idonea garanzia.

La nuova disposizione prevede, come già precisato, l’immediata esecutività delle sentenze di condanna in favore del contribuente, il cui pagamento può essere subordinato dal giudice alla prestazione di idonea garanzia qualora superi l’importo di 10.000 euro ed abbia accertato ed argomentato in sentenza la solvibilità del contribuente, valutata sulla base della consistenza del suo patrimonio e dell’ammontare delle somme oggetto di rimborso.

Il riferimento al “pagamento di somme dell’importo superiore a diecimila euro” esclude che tale limite possa operare come una franchigia per le evidenti complicazioni che un tale sistema provocherebbe.

Alla prova dei fatti, c’è da augurarsi che non si tratti di un diritto solo sulla carta e che in futuro si faccia uno sforzo finanziario per alzare l’asticella a 20.000,00 euro, come peraltro era stato auspicato dalle Commissioni parlamentari.

Il Ministero ha previsto in 50,6 milioni di Euro il costo stimato nel 2016 per effetto dell’esecutività delle sentenze in vigore dal prossimo 1° giugno 2016.

Il comma 2 dell’art. 69 demanda ad un apposito D.M. la disciplina della garanzia, che dovrà mutuare quella già in vigore contenuta nell’art. 38-bis del D.P.R. n. 633/1972. 11 D.M. dovrà disciplinare la garanzia, prevedendo la sua durata nonché il termine entro il quale può essere escussa, a seguito dell’inerzia del contribuente in ordine alla restituzione delle somme garantite protrattasi per un periodo di tre mesi. La garanzia prevista dalla norma viene richiamata anche in altre disposizioni (quali, ad esempio, l’art. 19 comma 3 del D.Lgs. n. 472/1997 in tema di sanzioni), per evidenti esigenze di omogeneità, certezza e semplificazione.

Fino all’approvazione del decreto restano applicabili le disposizioni previgenti di cui all’art. 69.

Il comma 3 dell’art. 69 prevede che i costi della garanzia, anticipati dal contribuente, sono a carico della parte soccombente all’esito definitivo del giudizio, mentre il comma 4 prevede che il pagamento delle somme dovute a seguito della sentenza deve essere eseguito entro novanta giorni dalla sua notificazione ovvero dalla presentazione della garanzia di cui al comma 2, se dovuta.

Infine il comma 5 dello stesso art. 69 consente l’ottemperanza nei casi di inerzia dell’Amministrazione al rimborso.

Il termine di esecuzione della sentenza di condanna in favore dei contribuente è, dunque, di 90 giorni, cui vanno aggiunti gli eventuali ulteriori 30 giorni necessari per l’ottemperanza a norma dell’art. 70 comma 2. Il termine complessivo arriva pertanto a 120 giorni e corrisponde a quello previsto in via generale dall’art. 14, comma 1, del D.L. n. 669/1996 per l’esecuzione delle decisioni civili nei confronti di soggetti pubblici (“Le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non economici completano le procedure per l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l’obbligo di pagamento di somme di danaro entro il termine di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né alla notifica di atto di precetto”).

E’ stato abrogato l’art. 69-bis del D. Lgs. n. 546 del 31/12/1992 dal titolo “Aggiornamento degli atti catastali”, che era stato inserito dalla legge n. 44 del 26 aprile 2012, con applicazione dal 02 marzo 2012.

Infine, si fa presente che, ultimamente, la Corte di Cassazione – Terza Sezione Penale – con la sentenza n. 39187 del 28/09/2015 ha stabilito che il sequestro preventivo per equivalente del profitto (consistente nell’imposta non versata) deve venir meno nel caso di intervenuto annullamento della cartella esattoriale, ancorché con sentenza non definitiva ma immediatamente esecutiva.

Infatti, il venir meno della pretesa tributaria determina lo sgravio delle somme iscritte a ruolo a seguito dell’avviso di accertamento, per cui, pur se la sentenza non è passata in giudicato, allo stato degli atti nulla è dovuto dal contribuente e, di conseguenza, viene meno la necessità del sequestro preventivo per equivalente del profitto.

In sostanza, la Corte di Cassazione, anche in sede penale, ha ritenuto determinante la immediata esecutività della sentenza, anche se non passata in giudicato.

Infine, il collegio, se lo ritiene opportuno, può delegare un proprio componente o nominare un commissario ad acta al quale fissa un termine congruo per i necessari provvedimenti attuativi e determina il compenso a lui spettante secondo le disposizioni del Titolo VII del Capo IV del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia approvato con D.P.R. n. 115 del 30/05/2002.

Giudizio di ottemperanza (art. 70).

All’art. 70 al comma 1 è stato soppresso l’inciso “Salvo quanto previsto dalle norme del c.p.c. per l’esecuzione forzata della sentenza di condanna costituente titolo esecutivo”, in quanto, come si è detto, viene previsto in via esclusiva il rimedio del giudizio di ottemperanza.

Al comma 2 dello stesso art. 70 si precisa che l’ottemperanza può essere richiesta oltre che verso l’ente impositore, anche nei confronti dell’Agente della riscossione o del soggetto iscritto nell’albo di cui all’articolo 53 del decreto legislativo n. 446 del 1997. Come si è già accennato, infatti, si è equiparato, fin dove possibile, gli enti impositori agli Agenti della riscossione (di cui all’art. 3, comma 28, dei decreto legge n. 203 del 2005) nonché ai soggetti iscritti nell’albo di cui all’articolo 53 del decreto legislativo n. 446 del 1997. In particolare, questi ultimi, ancorchè soggetti privati, esercitano funzioni pubbliche su concessione; da ciò la loro assoggettabilità anche al giudizio di ottemperanza. La giurisprudenza amministrativa ha, infatti, da tempo chiarito che “Il giudizio di ottemperanza è ammesso anche nei confronti di un soggetto tenuto in forza del giudicato al compimento di attività implicante esercizio di potestà pubbliche, quale il concessionario delegato all’espropriazione” (Cons. Stato sentenza n. 8250/2010); “Il giudizio di ottemperanza è ammissibile anche per ottenere il pagamento di una somma di denaro, purché però nei confronti di una Pubblica Amministrazione, ovvero nei confronti di un soggetto privato concessionario di pubblici poteri, per il compimento di attività connesse all’esercizio di questi ultimi” (T.A.R. Campania, sentenza n. 86/2011).

Infine, il comma 10-bis dello stesso art. 70 prevede che per il pagamento di somme dell’importo fino a 20.000 euro e comunque per il pagamento delle spese di giudizio, il ricorso è deciso dalla Commissione in composizione monocratica.

DISPOSIZIONI TRANSITORIE.

Le disposizioni del presente decreto entrano in vigore a decorrere dal 1° gennaio 2016, ad eccezione delle disposizioni sulla immediata esecutività delle sentenze che entrano in vigore dal 1° giugno 2016.

Le nuove disposizioni si applicheranno a tutti i giudizi pendenti alla data dello 01/01/2016, non essendo stata, giustamente, ritenuta opportuna una previsione di applicabilità limitata ai soli nuovi giudizi.

Infatti, un tale sistema avrebbe creato un nuovo rito che, coesistendo con il vecchio rito per le cause anteriori, avrebbe sicuramente generato pericolose confusioni ed incertezze.

Appunto per questo, l’attuale novella processuale è applicabile anche per i vecchi giudizi tuttora pendenti, indipendentemente da quando sono iniziati.

Infine, a decorrere dal 1° gennaio 2015, i procedimenti giurisdizionali pendenti al 31 dicembre 2014 dinanzi alla cessata Commissione tributaria centrale proseguono innanzi alla Commissione tributaria regionale del Lazio.

Lecce, 04 maggio 2016

Avv. Maurizio Villani