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Indagini su internet: sono insufficienti a motivare l’accertamento fiscale

Commento a cura del Cav. Franco Antonio Pinardi

È illegittimo l’accertamento, qualora l’Amministrazione finanziaria abbia determinato l’ammontare del ricavo evaso, senza indicazione di criteri logici e fonti di convincimento trasparenti ed agevolmente consultabili dal contribuente.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sesta sezione civile, con l’ordinanza n. 11074 depositata il 30 maggio 2016, con la quale ha accolto il ricorso presentato da un tassista nei confronti del quale il Fisco aveva presunto che la cessione della licenza da lui effettuata gratuitamente nei confronti di un amico fosse avvenuta a titolo oneroso; non solo: l’Ufficio aveva rintracciato in rete i prezzi presunti per tale cessione.

La CTR aveva dato ragione al Fisco affermando che il ricorrente non aveva dedotto particolari legami con il cessionario che potessero giustificare la gratuità della cessione e l’Amministrazione aveva, dal canto suo, dedotto l’importo dell’operazione negoziale con criteri obiettivi e condivisibili.

Il contribuente lamentava, tuttavia, che le modalità di calcolo della contestata plusvalenza – per cui l’Agenzia delle Entrate era ricorsa ad indagini di mercato attraverso siti internet – aveva impedito qualsivoglia valida contestazione, non essendo contenuto nel provvedimento impugnato alcun elemento specifico di valutazione.

E i giudici del Palazzaccio hanno dato ragione al tassista, ribaltando il verdetto del Tribunale di secondo grado.

Più precisamente la Cassazione ha osservato che in tema di imposte sui redditi viene richiesta l’indicazione nell’avviso di accertamento non solo degli estremi del titolo e della pretesa impositiva, ma anche dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che lo giustificano al fine di porre il contribuente nella condizione di valutare l’opportunità di esperire l’impugnazione giudiziale.

Nella specie hanno osservato gli Ermellini “il giudicante ha fatto derivare dalla semplice notorietà della onerosità della cessione di azienda anche una correlata presunzione in ordine all’ammontare del corrispettivo ed ha di fatto sollevato l’Agenzia ricorrente dall’onere che le incombe di fornire la specifica dimostrazione dei presupposti dell’azione amministrativa”.

L’Ufficio aveva infatti calcolato i 150mila euro basandosi su indagini di mercato svolte su siti internet.

Non può dunque bastare la circostanza dell’omessa dichiarazione perché l’Amministrazione determini l’ammontare del ricavo evaso, senza criteri logici e coerenti e senza fonti di convincimento trasparenti e agevolmente consultabili anche da parte del contribuente.

L’avviso di accertamento IRPEF è stato pertanto considerato illegittimo e la sentenza emessa dalla Commissione Tributaria Regionale è stata cassata con rinvio per la decisone sulle spese di lite.

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE – T

Oggetto: IRPEF ILOR ACCERTAMENTO

Ud. 07/04/2016 – CC

R.G.N. 2033/2014

Cron. 11074

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IACOBELLIS Marcello – Presidente

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – rel. Consigliere

Dott. CIGNA Mario – Consigliere

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2033-2014 proposto da:

(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS), giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 185/23/2013 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di NAPOLI del 26/03/2013, depositata il 02/05/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/04/2016 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPE CARACCIOLO.

La Corte,

ritenuto che, ai sensi dell’articolo 380 bis cod. proc. civ., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

Il relatore cons. Giuseppe Caracciolo,

letti gli atti depositati:

osserva:

La CTR di Napoli ha respinto l’appello di (OMISSIS) -appello proposto contro la sentenza n. 43/17/2011 della CTP di Napoli che aveva solo parzialmente accolto il ricorso del predetto contribuente, con riduzione dell’ammontare accertato fino a Euro 100.000,00 – ed ha così confermato (nei limiti dell’avvenuta riduzione anzidetta) l’avviso di accertamento per IRPEF 2005 a mezzo del quale era stata recuperata a tassazione la plusvalenza (liquidata nell’importo di Euro 150.000.00) realizzata per effetto del trasferimento di una “licenza taxi”.

La predetta CTR – dato atto che il (OMISSIS) aveva ribadito le proprie doglianze, ed in particolare quella concernente la gratuità dell’avvenuta cessione- evidenziava che il trasferimento della licenza di esercizio di un taxi “si inserisce normalmente nell’ambito di un’operazione negoziale di trasferimento di azienda, che è -appunto di norma- onerosa”. Non avendo la parte ricorrente dedotto l’esistenza di particolari legami (magari familiari) con il cessionario, idonei a giustificare la gratuità della cessione, avrebbe dovuto lo stesso contribuente fornire la prova contraria della usuale onerosità della cessione, ciò che non era avvenuto. L’Amministrazione d’altronde, aveva “valutato l’importo dell’operazione negoziale in oggetto con criteri obiettivi e condividibili, espressamente enunciati”.

La parte contribuente ha interposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. L’Agenzia si è difesa con controricorso.

Il ricorso – ai sensi dell’articolo 380 bis c.p.c. assegnato allo scrivente relatore, componente della sezione di cui all’articolo 376 c.p.c. – può essere definito ai sensi dell’articolo 375 c.p.c..

Con il secondo motivo di impugnazione (centrato sulla violazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 39, comma 2 e degli articoli 2697 e 2729 c.c.) la parte ricorrente -dopo avere evidenziato che l’avviso di accertamento riferiva che “l’Agenzia aveva induttivamente calcolato un valore di Euro 150.000,00 all’esito di indagini di mercato svolte attraverso siti internet”, si duole che le modalità di calcolo dell’importo della contestata plusvalenza hanno impedito qualsivoglia valida contestazione, non essendo contenuti nel provvedimento impugnato elementi specifici di valutazione, aspetto che confligge con la regola secondo cui gli accertamenti possono essere fondati su presunzioni gravi, precise e concordanti, quali nella specie di causa apparivano assenti. Il giudicante aveva perciò errato a dare per verificati i fatti rimasti ignoti, siccome asseritamente desunti da “ignote fonti attinte dal web”. In via di subordine, la parte ricorrente si duole che l’Agenzia non abbia riconosciuto in detrazione i costi relativi ai ricavi presuntivamente accertati, ciò da cui l’Amministrazione non può esimersi in sede di accertamento induttivo.

Il motivo appare fondato e da accogliersi.

Va preliminarmente evidenziato che l’orientamento di codesta Corte è fermo nel ritenere che: “In tema di imposte sui redditi, il Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, articolo 42, comma 2, richiede l’indicazione nell’avviso di accertamento non soltanto degli estremi del titolo e della pretesa impositiva, ma anche dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che lo giustificano, al fine di porre il contribuente in condizione di valutare l’opportunità di esperire l’impugnazione giudiziale e, in caso positivo, di contestare efficacemente l'”an” ed il “quantum debeatur”. Tali elementi conoscitivi devono essere forniti non solo tempestivamente (“ab origine” nel provvedimento) ma anche con quel grado di determinatezza ed intelligibilità che permetta all’interessato un esercizio non difficoltoso del diritto di difesa. (In applicazione di tali principi, la S. C. ha confermato la nullità dell’accertamento, che si limitava ad affermare l’omessa indicazione di una plusvalenza derivante dalla cessione della licenza di taxi, senza precisare a quale ipotesi di redditi diversi fosse riconducibile, senza qualificare l’oggetto del negozio e senza specificare la natura, autonoma o subordinata, dell’attività del contribuente)”. (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 16836 del 24/07/2014; Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 9032 del 15/04/2013 Sez. 5, Sentenza n. 15842 del 12/07/2006).

La parte ricorrente si duole, perciò, correttamente del fatto che il giudice del merito abbia ritenuto di condividere la valutazione in ordine all’ammontare del corrispettivo di cessione per quanto questo non fosse desunto da identificate fonti di cognizione e per quanto di dette fonti non sia stata fatta precisa indicazione nel contesto della motivazione.

In tal modo il giudicante ha fatto derivare dalla semplice notorietà della onerosità della cessione di azienda anche una correlata presunzione in ordine all’ammontare del corrispettivo ed ha di fatto sollevato l’Agenzia ricorrente dall’onere che le incombe di fornire la specifica dimostrazione dei presupposti dell’azione amministrativa (dovendo essi consistere almeno in presunzioni gravi, precise e concordanti), non solo nell’ottica della legittimità della propria determinazione in ordine all’adozione del provvedimento impositivo ma anche in ordine alla legittimità della liquidazione dell’ammontare della pretesa che in esso è contenuta.

Neppure muterebbe l’esito della valutazione ove effettivamente – come assume la parte controricorrente, senza che di questa tesi vi sia riscontro obiettivo in sentenza- si verta in ipotesi di dichiarazione dei redditi del tutto omessa.

Per quanto sia ius receptum che: “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, il potere dovere dell’Amministrazione è disciplinato non già dell’articolo 39, bensì dal Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, articolo 41, ai sensi del quale, sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, l’Ufficio determina il reddito complessivo del contribuente medesimo; a tal fine, esso può utilizzare qualsiasi elemento probatorio e può fare ricorso al metodo induttivo, avvalendosi anche di presunzioni c.d. super semplici – cioè prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 38, comma 3 -, le quali determinano un’inversione dell’onere della prova, ponendo a carico del contribuente la deduzione di elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito (risultante dalla somma algebrica di costi e ricavi) non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 3115 del 13/02/2006) non può tuttavia bastare la circostanza dell’omessa dichiarazione a consentire all’Amministrazione di determinare purchessia l’ammontare del ricavo evaso, senza indicazione di criteri logici con ciò coerenti e di fonti di convincimento trasparenti e agevolmente consultabili anche da parte del contribuente, pena la negazione sostanziale dell’onere che comunque alla parte procedente compete di identificare fonti di prova a sostegno del criterio di liquidazione della pretesa e non semplici volizioni apodittiche.

E non può essere neppure elusa la questione (che qui ridonda ancora una volta sotto il profilo degli oneri di allegazione e prova degli elementi conoscitivi presupposti all’accertamento, ai fini della determinazione dell’ammontare della pretesa) che e’ onere dell’Amministrazione -allorquando proceda d’ufficio all’accertamento del reddito d’impresa con metodo induttivo, e dovendo perciò procedere alla ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente- tenere conto anche delle componenti negative del reddito che siano comunque emerse dagli accertamenti compiuti.

A tal proposito è principio ribadito quello secondo cui “non possono trovare applicazione le limitazioni previste dal Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 597, articolo 74, commi 2 e 3, in tema di prova dei costi e degli oneri ai fini dell’accertamento con metodo analitico induttivo, in quanto tale norma disciplina la diversa ipotesi in cui una dichiarazione dei redditi, ancorché infedele, sia comunque sussistente. Diversamente, d’altronde, si assoggetterebbe ad imposta, come reddito d’impresa, il profitto lordo, anziché quello netto, in contrasto con l’articolo 53 Cost.” (Sez. 5, Sentenza n. 28028 del 25/11/2008).

Non resta che concludere che la pronuncia impugnata, che non si è attenuta ai ridetti principi, merita cassazione, con conseguente restituzione della lite al giudice del merito, affinché rinnovi l’apprezzamento del merito della vicenda alla luce della disciplina ad essa correttamente applicabile.

Pertanto, si ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio per manifesta fondatezza.

Roma, 30 luglio 2015.

ritenuto inoltre:

che la relazione è stata notificata agli avvocati delle parti;

che non sono state depositate conclusioni scritte, né memorie;

che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, il ricorso va accolto in relazione al secondo motivo, con assorbimento del primo;

che le spese di lite possono essere regolate dal giudice del rinvio.

 

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la decisione impugnata e rinvia alla CTR Campania che, in diversa composizione, provvederà anche sulle spese di lite del presente giudizio.

Così deciso in Roma il 7 aprile 2016

Depositato in cancelleria il 30 mag. 2016

 


 

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