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Uno stop alle “Small Claims”?

Cass. Sez. III Civ. 3 marzo 2015 n. 4228

In considerazione delle limitate risorse e delle difficoltà operative dell’amministrazione della giustizia un credito non può ricevere tutela giuridica se l’entità del valore economico è oggettivamente minima e quindi non tale da giustificare il giudizio di irrilevanza giuridica dell’interesse ad agire.

Va sempre trovato un capro espiatorio: se l’apparato della giustizia non funziona, se ci son milioni di cause civili che stazionano in attesa della decisione, se l’Italia sborsa parecchi milioni di euro per la legge Pinto, la colpa è delle troppe cause di valore infimo. E allora qual è la soluzione? “De minimis non curat praetor” dicevano gli antichi, il pretore non si cura delle quisquilie – ed ora, trasfuso all’attuale, dato che il pretore non esiste più – l’autorità giudiziaria non deve dar tutela a pretese bagatellari, ed anzi deve condannare alle spese del processo chi abbia osato disturbarla per le minuzie. Questo il senso della sentenza 2015 n. 4228  adottata dalla Terza Sezione della S.C.: seppur comprensibile per l’insofferenza che può suscitare il particolare puntiglio emergente dalla specifica controversia sub iudice, la decisione appare invece assai opinabile quanto alla motivazione, che giunge appunto ad offrire un segnale di dissuasione all’accesso alla giustizia per le “small claims”, le inezie, che poi tanto inezie possono anche non essere: si rischia così di legittimare l’autoriduzione, o forse anche “la cresta” (coi finti tonti fai bene i conti) con conseguenze  facilmente intuibili per il  contesto sociale.

Il fatto – Ricevuto l’atto di precetto per € 17.857,94 il debitore lo paga, ma ne rimangono fuori gli importi dovuti per ulteriori interessi moratori, di spese di notifica e di disamina della “relata”. Il creditore allora dà luogo all’esecuzione presso terzi e il debitore propone opposizione all’esecuzione; essa viene accolta dal tribunale quanto agli ulteriori accessori (notifica) per non essere stati indicati nell’atto di precetto benché determinabili e quanto agli interessi moratori in considerazione dell’esiguità del credito. Sconfitto ma non domo, il creditore ricorre per cassazione per vari motivi e, per quel che qui particolarmente rileva, sostenendo che nessuna norma autorizza il giudice ad eliminare un credito, qualunque ne sia l’entità.

La sentenza – Con la sentenza del 3 marzo 2015 n. 4228 la Terza Sezione della Cassazione ha rigettato il ricorso coll’affermare (è il punto più saliente e innovativo della decisione) che l’interesse a proporre l’azione esecutiva, quando abbia ad oggetto un credito di natura esclusivamente patrimoniale, nemmeno indirettamente connesso ad interessi giuridicamente protetti di natura non economica, non diversamente dall’interesse che deve sorreggere l’azione di cognizione, non può ricevere tutela giuridica se l’entità del valore economico è oggettivamente minima e quindi tale da giustificare il giudizio di irrilevanza giuridica dell’interesse stesso.

Tale ardito principio di diritto viene sorretto da argomentazioni a carattere eminentemente pratico, dalla considerazione cioè che la giurisdizione è, notoriamente, risorsa limitata e quindi  ben potrebbe la legge, esplicitamente o implicitamente, limitare il ricorso al giudice per far valere pretese di natura meramente patrimoniale, tenendo anche conto che il numero delle azioni giudiziarie non può non influire, stante la limitatezza delle risorse disponibili, sulla durata ragionevole dei giudizi, che è bene protetto dall’articolo 111 della Costituzione e dall’articolo 6 della Convenzione europea. Viene anche richiamata, pur vertendosi in processo esecutivo ad ulteriore suffragio di tale tesi, la lapalissiana disposizione recata per il processo di cognizione dall’articolo 100 Cpc, a norma della quale per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse.

La peculiarità della decisione – Le conclusioni cui giunge la sentenza 2015 n. 4228 meritano la massima attenzione, non tanto per il caso specifico nel quale si viene ad iniziare un’esecuzione forzata nonostante il pagamento completo dell’atto di precetto, e quindi per un residuo d’interessi di circa € 33, quanto per la generica affermazione secondo cui un diritto di credito incontestato può venir disconosciuto dal giudice, perfino con la condanna delle spese (e non di poco, nella specie per € 1.785,00) a carico di chi abbia ardito lagnarsene. Il che sa di sanzione punitiva, anche se l’importo liquidato è stato probabilmente rapportato all’intero valore del credito azionato in via esecutiva e non a quello infimo in contestazione. Comunque, pur tenendo conto delle ultime restrizioni introdotte dall’articolo 13 Dl 132/2014 conv. L. 162/2014 al comma 2 dell’articolo 92 Cpc in ordine alla compensazione delle spese, essa avrebbe potuto venir disposta ravvisandosi nella particolarità un indubbio caso di novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza.

I rilievi costituzionali – Gli argomenti a rilievo costituzionale addotti dalla sentenza 2015 n. 4228 suonano piuttosto deboli perché indiretti e al più soltanto collaterali: ci si richiama al testo novellato dell’articolo 111 Cost. a norma del quale la legge assicura (ma il condizionale sarebbe d’obbligo) la ragionevole durata del processo. E così ci si appella all’articolo 6 CEDU (L. 4 agosto 1955, n. 848, Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952) a norma del quale “toute personne a droit à ce que sa cause soit entendue équitablement, publiquement et dans un délai raisonnable, par un tribunal indépendant et impartial, établi par la loi, qui décidera, soit des contestations sur ses droits et obligations de caractère civil, soit du bien-fondé de toute accusation en matière pénale dirigée contre elle”.

Tanto per capirsi, ad avviso della sentenza, l’intasamento della giurisdizione per effetto di tante “small claims (processi bagatellari) impedirebbe ai giudici di esercitare il servizio celermente in quelli “seri”. Ma a fronte di queste assunte violazioni dei soprarichiamati dettati costituzionali ed europei possono cogliersi ben più salienti capovolgimenti del sistema ove lo spirito che ha animato la sentenza 2015 n. 4228 venisse a prender piede sovvertendo macigni ab antiquo consolidati: già la logica di ogni ordinamento giuridico è quella tracciata in Digesto, L. 1, Tit. 1, 10 << Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi>>, e lo stesso richiamato articolo 111 Cost., nell’affermare che le parti agiscono nel processo in condizioni di parità, consente sempre contro le sentenze il ricorso in cassazione per violazione di legge. Ed il soprarichiamato articolo 6 CEDU tiene a garantire la decisione ad opera dell’autorità giudiziaria nazionale in particolare, come si è visto, “des contestations sur ses droits et obligations de caractère civil”. Ma vi sono altre norme, ancora a rango costituzionale, tese ad assicurare la garanzia giurisdizionale dei diritti soggettivi, così l’articolo 24 Cost. in base al quale tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e perfino di quella forma più attenuata, degli interessi legittimi. E, fra l’altro, l’articolo 101 Cost. proclama che i giudici sono soggetti soltanto alla legge.

Andando al concreto, non può disconoscersi che il diritto agli interessi da ritardo costituisca un vero e proprio diritto soggettivo perfetto a tutti gli effetti ex articolo 1282 c.c., ed anzi il relativo saggio ha subito ora oggetto di attenzione e modifica proprio al fine di accelerazione dei processi ad opera dall’articolo 17 Dl 132/2014 nel testo recato dalla legge di conversione n. 162/2014. Ma allora non s’incorre nella denegata giustizia ove si neghi la tutela a tale diritto?

Invece il principio enunciato dalla sentenza 2015 n. 4228 è diverso ed opposto: un credito di natura esclusivamente patrimoniale, nemmeno indirettamente connesso ad interessi giuridicamente protetti di natura non economica, non può ricevere tutela giuridica se l’entità del valore economico è oggettivamente minima e quindi tale da giustificare il giudizio di irrilevanza giuridica dell’interesse stesso. Il richiamo all’interesse di cui al citato articolo 100 Cpc sembra necessitato dal rilievo che nel processo esecutivo ci si muove in altra parrocchia rispetto al processo di cognizione, nell’ambito del quale la norma sull’interesse è collocata. Senonché quando si tratta di dare esecuzione a un credito l’interesse è “in re ipsa”, sta appunto nel rendere efficace un titolo esecutivo che lo regge. Certamente il creditore può lasciar perdere e contentarsi di quel che prende, per bontà sua o anche per amor di buona pace o spirito di correntezza che sia, ma l’ordinamento è tenuto con ogni mezzo (così suona la formula esecutiva) ad eseguire forzosamente il titolo, ove esecutivo, giudiziale o stragiudiziale: non per niente la statua della giustizia con una mano tiene la bilancia, ma con l’altra tiene la spada.

L’interesse connesso di natura non economica – E allora appare superfluo ed ultroneo che a supporto dell’azione esecutiva seppur di entità minima – o, più in generale, della pretesa del creditore – debba dimostrarsi che l’interesse ad agire sia indirettamente connesso ad interessi giuridicamente protetti di natura non economica, a parte il rilievo che tale principio, così apoditticamente espresso dalla sentenza 2015 n. 4228, pure si appalesa alquanto oscuro. Si potrebbe supporre ad esempio che nel caso in esame si tratti d’interessi dovuti ad istituto bancario, il quale per sua stessa essenza vive sugli interessi sul credito, e allora l’interesse giuridicamente protetto (ma si tratta pur sempre di natura economica) si configurerebbe nel principio di spettanza degli interessi sul credito (ci si perdoni il bisticcio di parole fra interessi bancari e interesse ad agire). E così si potrebbero ipotizzare altre situazioni nelle quali il credito, seppur minimo, rappresenta un punto di principio per una platea di utenti o consumatori, sicché la controversia singola si presenti come una sorta di “leading case”, causa pilota, per farsi strada nel far valere rilevanti interessi di ordine generale e diffuso. Sempre sul piano dell’interesse ad agire “indirettamente connesso ad interessi giuridicamente protetti di natura non economica” può richiamarsi l’assolutamente anomala situazione esaminata della stessa Terza Sezione con sentenza 3 Aprile – 9 Agosto 2007 n. 17457 nella quale si verteva su un credito dell’importo simbolico di una lira reclamato dai congiunti di una vittima di omicidio costituiti parte civile in processo penale.

Come spazzar via le quisquilie? – Dalla constatazione della limitatezza delle risorse per l’amministrazione della giustizia la sentenza 2015 n. 4228 rileva (o, forse meglio, auspica) che ben potrebbe la legge, esplicitamente o implicitamente, limitare il ricorso al giudice per far valere pretese di natura meramente patrimoniale, tenendo anche conto che il numero delle azioni giudiziarie non può non influire, stante la limitatezza delle risorse disponibili, sulla durata ragione dei giudizi. L’assunto evidentemente non trova alcun sostegno normativo, se non altro perché pretende basarsi sul “de iure condendo” anziché sul “de iure condito”, ma vale la pena di soffermarvisi perché la via che in cotal guisa la Terza Sezione sembra volere intraprendere (in mancanza o in attesa di un auspicabile intervento da parte delle Sezioni Unite) potrebbe rivelarsi foriera di un pernicioso andazzo per una miriade di cause “bagatellari”.

Una legge limitativa di tali “infime” controversie non c’è, ed anzi il doveroso vaglio di tutte le sentenze su controversie di valore enorme o minimo – da parte della Cassazione stabilito dal citato articolo 111 Cost. sta appunto a significare l’esatto contrario. E neppure esiste una legge “implicitamente” limitativa di tali controversie, almeno nel senso agognato dalla sentenza 2015 n. 4228, di eliminare la zavorra delle quisquilie ed oliare così la sconquassata macchina della giustizia.

Ma qualcosa d’implicito, in agguato, sia pure di ripiego a forza di razzolare, si potrebbe anche venire a scovare: la decisione secondo equità di cui al comma 2 dell’articolo 113 Cpc, anche se la sentenza non ne fa menzione, il che è anche comprensibile perché, pur essendo l’importo in contestazione di pochi euro, il teorico petitum dell’esecuzione presso terzi ammontava ad € 17.857,94 e comunque la connessione e la pregiudizialità del processo esecutivo giustificava una decisione secondo diritto. Ed anzi si sarà osservato che nella specie l’impugnazione avverso sentenza di rigetto dell’opposizione è stata direttamente proposta innanzi alla cassazione a norma dell’articolo 616 Cpc come sostituito dall’articolo 14 L. 52/2006, e ciò è stato ritenuto corretto dalla medesima Terza Sezione con ordinanza 12 Ottobre 2010 n. 21067 quand’anche la decisione sull’opposizione all’esecuzione fosse stata pronunciata dal giudice di pace secondo equità, con sentenza cioè che in linea generale sarebbe stata invece appellabile dinanzi al tribunale a norma dell’articolo 339 Cpc.

Il raffronto col giudizio secondo equità – Al fine di cogliere se la strada avviata dalla sentenza 2015 n. 4228 possa in una qualche misura trovare un supporto, stante il minimo valore oggetto della domanda, nel giudizio secondo equità, occorre compiere un sintetico excursus di questo peculiare giudizio, nel travagliato cammino intrapreso fin dalla genesi del vigente Codice di procedura civile. Ad avviso della Relazione al Re del Guardasigilli Grandi, nell’illustrazione dell’articolo 113 Cpc con l’applicazione di questa nuova regula iuris, sia pure entro minimi limiti di valore (all’epoca seicento lire) il canone fondamentale della pronuncia secondo diritto <<non esclude, si intende, che in certi particolari casi possa la stessa legge riconoscere l’opportunità di conferire al giudice poteri equitativi; soprattutto in quei casi in cui la pronunzia secondo equità appare la più adatta per la compilazione del rapporto controverso o per l’esiguità economica dell’oggetto in lite…. il favore che il nuovo Codice dimostra per la conciliazione o per la decisione di equità non dev’essere considerato come un segno di sfiducia nella legalità e come sintomo di accomodante tendenza a svalutare, a vantaggio delle soluzioni transattive, la lotta per il diritto. In molti casi può bastare in limine litis la saggia ed autorevole parola del giudice per far comprendere alle parti che senza ricorrere alla lotta giudiziaria esse hanno nell’amichevole accordo lo strumento per eliminare con soddisfazione reciproca il loro litigio>>.

Il comma 1 del citato articolo 113 Cpc, ora come allora, recita che nel pronunciare sulla causa il giudice deve seguire le norme del diritto, salvo che la legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità. Ma travagliato risulta invece il comma 2, che appunto demanda al giudice di decidere secondo equità le cause entro un certo limite di valore, appunto perché lasciava il giudice libero di disapplicare la normativa vigente e quindi si prestava ad abusi: con la riforma introdotta dalla L. 30 Luglio 1984 n. 399 la pronuncia secondo equità (elevata al valore di un milione di lire) veniva però circoscritta e vincolata all’osservanza dei principi regolatori della materia. All’entrata in scena del giudice di pace l’articolo 21 L. 21 novembre 1991 n. 374 innovava un’altra volta il secondo comma dell’articolo 113 Cpc. con lo stabilire che il giudice di pace decidesse secondo equità le cause il cui valore non eccedesse lire due milioni di lire (ora millecento euro)  venendo così anche a sopprimere il detto limite dei principi regolatori della materia. Si fece allora di nuovo marcia indietro, dapprima in particolare il Dl 8 Febbraio 2003 n. 18 convertito in legge 7 Aprile 2003 n. 63  sottrasse al giudizio di equità le cause derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti “di massa”, conclusi  secondo le modalità di cui all’articolo 1342 del Codice civile, ossia mediante moduli o formulari (cosiddetti “contratti di massa”, si veda da ultimo “Guida al Diritto” n. 5/2012 pag. 34) e sopraggiunse poi la sentenza “additiva” della Consulta 5-6 luglio 2004 n. 206 (in <<Guida al Diritto>> n. 29/2004 pag. 50) con l’introdurre il limite dei “principi informatori”, che vennero infine trasfusi nei resuscitati principi regolatori della materia, sia pure in via indiretta e trasversale dall’articolo 1 Dlgs 2 Febbraio 2006 n. 40 (in “Guida al Diritto” n. 8/2006 pag. 8) il quale ha disposto che le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell’articolo 113 Cpc, secondo comma, siano appellabili (e non più dunque ricorribili soltanto per cassazione) esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia.

Per completezza va aggiunto che neanche nelle opposizioni a ordinanza-ingiunzione (e quindi in primis nelle controversie su contravvenzioni stradali il giudizio secondo equità può aver luogo: difatti l’articolo 99 D.Lgs. 30 dicembre 1999 n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della L. 25 giugno 1999, n. 205) ha aggiunto l’11° comma all’articolo 23 L. n. 689/1981, in forza del quale il secondo comma articolo 113 Cpc non si applica nel procedimento di opposizione alle ordinanze-ingiunzioni.

Da questa breve disamina risulta chiaro come una deroga al giudizio secondo diritto suggerita da un’assunta equità non possa reggersi né per i cosiddetti “contratti di massa” né per le opposizioni alle ordinanze-ingiunzioni, mentre il principio della mancata tutela delle quisquilie, così in generale espresso dalla sentenza 2015 n. 4228, mal si potrebbe puntellare, neppure invocando l’equità in quei rari giudizi che ancora son tenuti a seguirla. Difatti la doverosa osservanza dei principi regolatori e delle norme costituzionali e comunitarie verrebbe a cozzare con l’inosservanza della legge determinata da assunte esigenze di scarsezza di risorse in un servizio, quale quello della giustizia, che rappresenta uno dei compiti più essenziali in ogni Stato di diritto. Tanto più che la giustizia “minore”, amministrata in prima istanza dai giudici di pace, è l’unica ad essere attualmente esercitata entro tempi ragionevoli. Una volta sgombrata poi l’immediata ricorribilità per cassazione di tali sentenze, come si è visto già dal D.lgs. l2006 n. 40, non si vede poi come gli Ermellini possano addebitare proprio a questa “giustizia dei poveri” l’enorme collasso dell’intero sistema giudiziario.

Eugenio Sacchettini