Giurisprudenza

Quando il Presidente della Provincia “intrallazza” – Sentenza n. 4933 del 8 febbraio 2012

Ente Giudicante: Corte di Cassazione
Procedimento: Sentenza n. 4933 del 8 febbraio 2012

Quando il Presidente della Provincia “intrallazza”

Un esempio di quanto i nostri politici, a livello locale o nazionale, si interessano alla res pubblica. La vicenda è quella di un politico che, approfittando delle sue funzioni, aveva costretto il Responsabile del Settore Servizi Sociali della Provincia ad attuare una serie di tagli sui servizi, a causa di un inaspettato blocco dei fondi. Il risultato è stato, ovviamente, quello di ottenere le dimissioni del funzionario e la nomina al suo posto, di una persona gradita per vicinanza politica.

Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Palermo, avevano però assolto il politico. Infatti, l’amministratore in questione era stato prosciolto dall’accusa di abuso d’ufficio perché il fatto non costituiva reato. Secondo il giudice d’appello l’imputato non avrebbe interferito sulla sospensione dei pagamenti né avrebbe influito sulle dimissioni rassegnate dal dirigente.  La sentenza che esclude la sua responsabilità non considera tuttavia le testimonianze secondo cui, dopo il pilotato cambio al vertice dell’ente, i finanziamenti pubblici sarebbero tornati ad affluire verso l’istituto.

Ci pensa il Pm presso la Corte di Appello di Palermo a tentare di far condannare il politico, promuovendo ricorso per Cassazione. E il ricorso è fondato. Lo stabilisce la Suprema Corte, con la sentenza n. 4933 del 8 febbraio 2012 qui in commento.

Il ricorrente stigmatizza che il giudice di appello, invece di rispondere alle specifiche e puntuali censure sollevate nei motivi d’appello, abbia concentrato la sua attenzione sulle sole prove favorevoli alla tesi difensiva, ignorando le altre e giungendo a una decisione che, ove non fosse stata operata l’irragionevole e ingiustificata amputazione del materiale probatorio acquisito, sarebbe stata indubitabilmente diversa. la Corte osserva che l’accertamento del fatto di reato costituente oggetto d’imputazione richiede che il giudice prenda in esame tutte le prove legittimamente acquisite al processo e le valuti secondo le regole della logica dando spiegazione del risultato raggiunto. Naturalmente, quando lo stesso fatto sia oggetto di plurime prove, magari divergenti, la loro valutazione complessiva implica che il giudice determini il valore probatorio di ciascuna e poi proceda per confronti, combinazioni e esclusioni, fino a stabilire, secondo il prudente apprezzamento, quale ricostruzione del fatto sia confermata da un grado elevato di attendibilità razionale. Nella fattispecie la sentenza assolutoria di primo grado è stata impugnata con un appello che, presupponendo l’obbligo del giudice di motivare la decisione nel senso delineato, censurava “l’erronea, lacunosa, incompleta, non approfondita valutazione delle risultanze istruttorie”. Il ricorso per cassazione, i cui motivi sono stati sopra sintetizzati, denuncia a sua volta vizio di motivazione perché il giudice d’appello avrebbe anch’esso eluso il dovere di completezza della motivazione in tema di valutazione della prova. La doglianza è ammissibile, perché sussiste il vizio di mancanza di motivazione non solo quando la stessa manchi graficamente o sia del tutto apparente, ma anche quando le argomentazioni addotte dal giudice a dimostrazione della fondatezza del suo convincimento sono prive di completezza a fronte delle specifiche, decisive doglianze formulate nei motivi d’appello in ordine alla selezione e valutazione delle prove. La sentenza di primo grado aveva ritenuto provati, seppure con argomentazioni ondivaghe, sia l’abuso per violazione di legge commesso dall’imputata per avere “sollecitato” il blocco dei pagamenti, sia l’ingiusto vantaggio dalla stessa conseguito con le dimissioni della rettrice e aveva pronunciato l’assoluzione solo perché riteneva mancante la prova del dolo. La sentenza d’appello, chiamata a riesaminare le risultanze istruttorie, giungeva alla radicale conclusione che nessuno degli elementi costitutivi del reato contestato era stato provato. Non vedo, non sento, non parlo. Sentenza da leggere e meditare.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Registro Generale n. 42490/2011
Udienza pubblica del 11.1.2012
Sentenza n. 31

composta dai Magistrati:
dott. Adolfo Di Virginio – Presidente
dott. Tito Garribba – Consigliere
dott. Nicola Milo – Consigliere
dott. Luigi Lanza – Consigliere
dott. Anna Petruzzellis – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Palermo;

avverso

la sentenza n. 1364 emessa l’11 aprile 2011 dalla Corte d’appello di Palermo nei confronti di A.G.;

Udita la relazione svolta dal consigliere Tito Garribba;

Udito il pubblico ministero, in persona del Sost. Procuratore Generale dott. Vito Monetti, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;

Udito il difensore dell’imputata avv. Luigi Tramontano in sostituzione dell’avv. Fabrizio Biondo, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con sentenza 11 aprile 2011 la Corte d’appello di Palermo, rigettando l’impugnazione del pubblico ministero, confermava la sentenza del Tribunale di Trapani che aveva assolto A.G. dal reato di abuso d’ufficio con la formula “perché il fatto non costituisce reato“.

All’imputata era contestato di avere, abusando delle funzioni di presidente della Provincia Regionale di Trapani, indotto A.A., responsabile del Settore Servizi Sociali della medesima Provincia, a sospendere il pagamento delle rette degli studenti ospiti del C. nazionale di Stato per audiofonolesi di Marsala, con l’obiettivo, effettivamente conseguito, di ottenere le dimissioni della rettrice del C. A.A. e la nomina al suo posto di V.M., persona a lei gradita per motivi di vicinanza politica.

La Corte d’appello riteneva non provati i fatti posti a base dell’accusa, osservando in estrema sintesi:

– che A., avendo scoperto che la spesa per le rette dei convittori (prevista dall’art. 12 della legge regionale  n. 33 del 1991, che pone a carico della Provincia il compito di “provvedere all’assistenza di sordi e ciechi rieducabili, curando anche il mantenimento degli stessi presso appositi istituti ai fini dell’assolvimento dell’obbligo scolastico“) veniva gestita in modo incontrollato, sospettando una mala gestio del denaro pubblico, aveva deciso di sospendere i pagamenti in attesa delle opportune verifiche; solo il 14 aprile 2005, cedendo alle pressioni delle rettrice del C. che segnalava il rischio di non portare a compimento l’anno scolastico per mancanza di fondi, disponeva il pagamento degli arretrati relativi al periodo dall’aprile al dicembre 2004 (euro 133.184), con riserva di ripetizione dell’eventuale indebito; in effetti, all’esito degli accertamenti compiuti, risultò che la Provincia aveva indebitamente erogato, per l’anno 2004, la somma di euro 78.139;

– che la rettrice, avendo compreso che la sua permanenza alla direzione del Convitto era di ostacolo al pagamento delle rette, con lettera del 31.3.2005 aveva chiesto di essere sollevata dall’incarico (che sarebbe scaduto alla fine di agosto), spiegando però che la situazione creatasi era stata l’occasione per liberarsi da un impegno non gradito (che si aggiungeva a quello di preside di un Istituto in Palermo), incompatibile con le sue esigenze familiari;

– che D.G., direttore dell’Ufficio scolastico regionale del Ministero della pubblica istruzione, ricevute le dimissioni dell’A., con Decreto del 7 aprile 2005 aveva designato rettore del C. fino al termine dell’anno scolastico la prof. V.M. e aveva poi nominato per l’anno scolastico successivo il prof. P..

In conclusione, secondo il giudice d’appello, l’imputata non aveva interferito sulla sospensione dei pagamenti né aveva influito sulle dimissioni rassegnate dalla rettrice del C.. La decisione di sospendere i pagamenti era corretta, perché – come accertato a posteriori – erano state ammesse al pagamento rette riguardanti studenti che non ne avevano i requisiti: Comunque il C. non aveva subito danno dal ritardo perché nelle missive di sollecito scritte dalla rettrice si precisava che il C. poteva resistere fino al mese di marzo. Infine non era stato provato l’interesse dell’imputata a vedere occupato il posto di rettore da persona a lei politicamente gradita, anzi risultava che aveva perseguito l’interesse pubblico a che il C. fosse retto da persona all’altezza del compito affidatogli.

2. Contro la sentenza ricorre il pubblico ministero, il quale, sotto il profilo del vizio di mancanza di motivazione, censura che la decisione sia stata fondata su un esame parcellizzato delle dichiarazioni testimoniali acquisite, tenendo conto solamente delle parti che risultavano funzionali alla tesi difensiva e trascurando invece, senza darne ragione, quelle, pur evidenziate nei motivi d’appello, che avallavano la fondatezza dell’accusa. Lamenta in particolare che la sentenza abbia omesso di valutare:

– le dichiarazioni della persona offesa A.A., che aveva detto di avere maturato la convinzione, in base alle dichiarazioni rilasciate dall’imputata alla stampa, che costei avesse imposto la sospensione dei pagamenti come mezzo di pressione per ottenere la sostituzione del rettore del C. e, pertanto, ella aveva deciso di farsi da parte per evitare che il protrarsi del blocco dei pagamenti recasse pregiudizio irreparabile al funzionamento dell’Istituto;

– le dichiarazioni di A. (verbale di s.i. del 9.5.2005 acquisito al fascicolo per il dibattimento ai sensi dell’art. 493, comma 3, cod. proc. pen.), secondo cui l’imputata “aveva dato l’indirizzo di attendere una nuova gestione del C. prima di liquidare quanto dovuto … cioè di sospendere i pagamenti fino a quando non fosse stato nominato un rettore ritenuto più adeguato al compito“. E, più avanti, aggiungeva: “In effetti la pratica dei pagamenti arretrati si è sbloccata non appena la dott.ssa A.A. se ne è andata. Ho motivo di ritenere che qualora la dott.ssa A.A. non se ne fosse andata, non avrei avuto l’atto di indirizzo dalla presidente G.A.” di corrispondere i pagamenti bloccati;

– le dichiarazioni di D., secondo cui l’imputata l’aveva informato che aveva impartito la disposizione di sospendere i pagamenti perché riteneva che la rettrice fosse inadeguata al ruolo ricoperto, sicché egli s’era formato l’opinione che fino a quando la rettrice fosse rimasta al suo posto la spesa per le rette non sarebbe stata liquidata (ud. dib. 18.12.2006); il teste aggiungeva che l’A., nel presentargli la lettera di dimissioni, l’aveva esortato a essere “pragmatico” e a considerare che le dimissioni avrebbero garantito, con la ripresa dei pagamenti, il funzionamento del C.; il teste aveva pure ammesso che la prof. V., da lui nominata nuova rettrice, gli era stata segnalata dalla presidente della Provincia.

Rimarca il pubblico ministero ricorrente che l’affermazione di A. di avere autonomamente deciso di procedere alla verifica della spesa era contraddetta dal fatto che solamente dopo la nomina del nuovo rettore e l’emissione della delibera di pagamento fu costituito un gruppo di lavoro per eseguire la verifica contabile, che peraltro si concluse in meno di dieci giorni. Nel frattempo la sospensione dei pagamenti, che aveva interessato l’ultimo trimestre dell’anno scolastico 2003-2004 e i primi due trimestri dell’anno successivo, aveva messo a repentaglio il funzionamento del C. che si reggeva prevalentemente sul finanziamento della Provincia.

Lamenta ancora il ricorrente l’omesso esame dei verbali delle sommarie informazioni rese dal personale in servizio presso il C., da cui emergeva l’interesse dell’imputata a sfruttare quell’Istituto come serbatoio di voti per le sue campagne elettorali.

Sostiene infine, in conformità con i motivi d’appello, che dovrebbe essere ripristinata l’originaria qualificazione del fatto come delitto di concussione, avendo l’imputata, abusando della qualità di presidente della Provincia, indotto A.A. a rassegnare indebitamente le dimissioni, aprendo la strada all’attribuzione dell’incarico divenuto vacante a una persona di sua fiducia. Conclude pertanto per l’annullamento della sentenza.

2. Il ricorso è fondato.

L’accertamento del fatto di reato costituente oggetto d’imputazione richiede che il giudice prenda in esame tutte le prove legittimamente acquisite al processo e le valuti secondo le regole della logica dando spiegazione del risultato raggiunto. Naturalmente, quando lo stesso fatto sia oggetto di più prove, magari divergenti, la loro valutazione complessiva implica che il giudice determini il valore probatorio di ognuna e poi proceda per confronti, combinazioni ed esclusioni, sino a stabilire, secondo il prudente apprezzamento, quale ricostruzione del fatto sia confermata dal grado più elevato di attendibilità razionale.

Nella fattispecie la sentenza assolutoria di primo grado è stata impugnata con un appello che, presupponendo l’obbligo del giudice di motivare la decisione nel senso testé delineato, censurava “l’erronea, lacunosa, incompleta, non approfondita valutazione delle risultanze istruttorie“. Il ricorso per cassazione, i cui motivi sono stati sopra sintetizzati, denuncia a sua volta vizio di motivazione perché il giudice d’appello avrebbe anch’esso eluso il dovere di completezza della motivazione in tema di valutazione della prova. Il ricorrente, infatti, stigmatizza che la Corte territoriale, invece di rispondere alle specifiche e puntuali censure sollevate nei motivi d’appello, abbia concentrato la sua attenzione sulle sole prove favorevoli alla tesi difensiva, ignorando le altre, e giungendo a una decisione che, ove non fosse stata operata l’irragionevole e ingiustificata amputazione del materiale probatorio acquisito, sarebbe stata indubitabilmente diversa.

Siffatta doglianza è ammissibile, perché sussiste il vizio di mancanza di motivazione ai sensi dell’art. 606, comma 3, lett. e), cod. proc. pen. non solo quando essa manchi graficamente o sia del tutto apparente, ma anche quando le argomentazioni addotte dal giudice a dimostrazione della fondatezza del suo convincimento sono prive di completezza a fronte delle specifiche, decisive doglianze formulate nei motivi d’appello in ordine alla selezione e valutazione delle prove (Cass., Sez. 6, n. 35918, del 17.6.2009, Greco, rv 244763, Sez. 4, n. 10456 del 15.11.1996, Izzi, rv 206322).

Prima di evidenziare le principali lacune motivazionali che viziano la sentenza impugnata, si rileva che la sentenza di primo grado aveva ritenuto provati, seppure con argomentazioni ondivaghe, sia l’abuso per violazione di legge commesso dall’imputata per avere “sollecitato” il blocco dei pagamenti sia l’ingiusto vantaggio dalla stessa conseguito con le dimissioni della rettrice, e aveva pronunciato l’assoluzione sol perché riteneva mancante la prova del dolo. La sentenza d’appello, chiamata a riesaminare le risultanze istruttorie, giungeva alla più radicale conclusione che nessuno degli elementi costitutivi del reato contestato era stato provato.

Orbene nella vicenda in esame i fatti topici oggetto di prova sono tre:

1. se l’imputata ha dato al dirigente A. l’ordine di sospendere i pagamenti in favore del C.;

2. se la rettrice del C. ha dato le dimissioni per effetto dell’ordine abusivo impartito dall’imputata;

3. se l’imputata ha agito per soddisfare un interesse privato.

E’ evidente che, se i fatti dianzi specificati fossero provati, sussisterebbe il reato di concussione, perché l’imputata, abusando della sua qualità di presidente della Provincia, avrebbe costretto o indotto la dirigente del C. a dare le dimissioni, la cui utilità stava nel fatto che, altra persona, questa volta a lei gradita, avrebbe potuto, grazie alla sua capacità manovriera, occupare il posto divenuto vacante.

Preliminarmente si osserva che la sentenza impugnata non ha preso in considerazione le risultanze dei verbali di sommarie informazioni acquisiti al fascicolo per il dibattimento, su accordo delle parti, a norma dell’art. 493, comma 3, cod. proc. pen.. Invero le dichiarazioni per tale via entrate a far parte degli atti del dibattimento non soffrono i limiti di utilizzabilità previsti dall’art. 500, commi 1 e 2, cod. proc. pen. per le “dichiarazioni precedentemente rese dal teste“, ma, essendo dotate di pieno e autonomo valore probatorio hanno valenza pari alle deposizioni assunte nel contraddittorio, e quindi il giudice, ove riscontri una divergenza, deve dare ragione della preferenza accordata all’una piuttosto che all’altra versione. In verità, nel caso di specie, sulle sommarie informazioni oggetto di acquisizione concordata, che l’appellante adduceva come utili per provare il fatto sub 3) nonché la parziale falsità della testimonianza dibattimentale di A., la sentenza d’appello ha serbato assoluto e ingiustificato silenzio.

In ordine al fatto sub 1), premesso che le sentenze sia di primo che di secondo grado danno per pacifico che il presidente della Provincia, in osservanza della separazione delle competenze tra organi di governo e dirigenti amministrativi stabilita dal d.lgs. n. 267/2000 (“Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali”), non poteva ordinare o chiedere al responsabile del Settore Servizi Sociali di sospendere il pagamento delle rette spettanti per legge al C., si osserva che il giudice d’appello è pervenuto al convincimento che A. avesse disposto il blocco dei pagamenti di sua autonoma iniziativa, avendo ritenuta veridica la sua deposizione dibattimentale, senza considerare che era contraddetta dalle precedenti dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari secondo cui “l’indirizzo” prima di sospendere e poi di riprendere i pagamenti era provenuto dall’imputata e, inoltre, che era incompatibile con le seguenti circostanze pure evidenziate nei motivi d’appello:

– che A., che assumeva di avere sospeso i pagamenti per verificarne l’effettiva debenza, soltanto nell’aprile 2005, in concomitanza con la ripresa dei pagamenti, aveva nominato a quello scopo un gruppo di lavoro, che aveva peraltro assolto l’incarico in pochi giorni; pertanto l’asserita necessità della verifica – che pur aveva dato risultati positivi – appariva come un pretesto costruito a posteriori;

– che il blocco totale dei pagamenti era misura sproporzionata allo scopo dedotto, dal momento che almeno una parte dei convittori possedeva sicuramente i requisiti per essere ammessa alla sovvenzione pubblica;

– che A. dispose la ripresa dei pagamenti non appena fu nominato il nuovo rettore del C.;

– che la stessa imputata davanti alla stampa (intervista al “Giornale di Sicilia” del 17.3.2005) e al dirigente ministeriale D. si era attribuita la paternità della sospensione dei pagamenti motivandola con l’esigenza di ottenere la nomina di un nuovo rettore alla direzione del C..

In ordine al fatto sub 2), si osserva che la sentenza impugnata ha effettivamente travisato il significato delle dichiarazioni della persona offesa dal reato, posto che la stessa ha sempre detto di aver dato le dimissioni perché quella soluzione le appariva da un punto di vista “pragmatico” l’unica adatta a salvaguardare la funzionalità del C. seriamente pregiudicata dalla perdurante sospensione dei pagamenti. Ha aggiunto che a quella decisione, determinata dall’atteggiamento assunto dall’imputata che aveva pubblicamente proclamato che la Provincia non avrebbe pagato fino a quando non fosse cambiato il rettore, era giunta senza particolare sofferenza, perché, dando le dimissioni, si sarebbe liberata da un incarico che le riusciva gravoso.

In ordine al fatto sub 3), si rileva che la sentenza impugnata ha ritenuto che l’imputata avesse agito nell’interesse del buon andamento del C., trascurando però di valutare le sommarie informazioni di alcuni dipendenti del C. atte a delineare – secondo il pubblico ministero appellante – l’interesse elettoralistico che avrebbe ispirato la condotta prevaricatrice tenuta dall’imputata.

La sentenza deve dunque essere annullata con rinvio ad altra sezione della stessa Corte d’appello che, nel rinnovare il giudizio, dovrà riesaminare le prove e procedere alla ricostruzione del fatto, tenendo presenti le deduzioni formulate nei motivi d’appello e dando conto delle scelte discrezionalmente effettuate nella valutazione della prova.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Palermo.

Così deciso l’11 gennaio 2012.

Il Consigliere estensore
Tito Garribba

Il Presidente
Adolfo Di Virginio

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