Giurisprudenza

Il diritto alla detrazione I.v.a. in caso di contestazioni relative all’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti. La rilevanza della buona fede del contribuente – Sentenza n. 18009 del 19 ottobre 2012

Ente Giudicante: Corte di Cassazione
Procedimento: Sentenza n. 18009 del 19 ottobre 2012

Il diritto alla detrazione I.v.a. in caso di contestazioni relative all’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti. La rilevanza della buona fede del contribuente.

Nota a Corte Suprema di Cassazione – Sezione Tributaria, 19 ottobre 2012, n. 18009[1]

A cura dell’Avv. Francesca Eugeni

1. Premessa.

La sentenza in commento rappresenta una pronuncia decisiva della nostra Suprema Corte sulla delicata problematica del diritto alla detrazione I.v.a. relativa a fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, in caso di affidamento incolpevole da parte del contribuente.

2. Il caso

La controversia trae origine da un avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate ha contestato, tra l’altro, i seguenti rilievi:

(i)  un’indebita detrazione I.v.a. in relazione a fatture per operazioni soggettivamente inesistenti;

(ii) maggiori ricavi non dichiarati, accertati sulla base di indagini bancarie sui conti correnti dei soci.

La Commissione Tributaria Provinciale ha accolto, parzialmente, il ricorso della società contribuente, in quanto ha annullato il rilievo sulle fatture per operazioni soggettivamente inesistenti ma, solamente, in relazione alle maggiori imposte dirette, confermando, invece, l’indetraibilità dell’I.v.a. e il rilievo basato sulle indagini bancarie.

La società, pertanto, ha proposto appello avverso i capi della sentenza sfavorevoli. La Commissione Tributaria Regionale adita ha accolto, in parte, tale appello, dichiarando illegittima la ripresa fiscale relativa alle operazioni soggettivamente inesistenti anche ai fini I.v.a., in quanto, a differenza del primo giudice, non ha ritenuto tali operazioni adeguatamente provate[2]; ha confermato, invece, la sentenza di primo grado in relazione alla ripresa fondata sulle indagini bancarie, soprattutto per la presenza di “pagamenti promiscui”, cioè effettuati sia per operazioni personali, che societarie.

L’Amministrazione finanziaria, pertanto, ha impugnato la sentenza di secondo grado, innanzi alla Suprema Corte, chiedendone la cassazione parziale[3].

In particolare, in relazione al primo recupero (di indebita detrazione Iva), l’Agenzia delle Entrate ha impugnato la sentenza di secondo grado per i seguenti motivi di doglianza:

(i)                 “vizio di motivazione” in ordine agli elementi probatori addotti dai verificatori;

(ii)               “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 19, 21, 23, 28 e 54 del D.P.R. n. 633 del 1972 e dell’art. 2697c.c.”, in quanto la prova dell’inesistenza (soggettiva) delle fatture non era onere gravante sull’Amministrazione finanziaria;

(iii)             “violazione e/o falsa applicazione” dei suddetti articoli, in quanto la prova che la contribuente (società cessionaria) fosse consapevole delle violazioni, poste in essere dalle società cedenti, non si poteva ritenere a carico dell’Amministrazione finanziaria. La normativa in questione, infatti, al fine di legittimare il recupero dell’Iva, non prescrive che sia data prova dello stato soggettivo del cessionario[4], essendo sufficiente che lo stesso abbia portato in detrazione l’imposta riportata nelle fatture afferenti ad operazioni soggettivamente inesistenti;

(iv)             “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 654 c.p.p. e degli artt. 19 e 21 del d.P.R. n. 633 del 1972” laddove la sentenza ha richiamato il decreto di archiviazione del procedimento penale a carico del legale rappresentante della società contribuente, a dimostrazione della carenza probatoria alla base della tesi dell’Agenzia delle Entrate. Tale archiviazione, invece, era giuridicamente irrilevante ai fini dell’accertamento di un illecito tributario.

In relazione alle suddette doglianze, la contribuente ha replicato che il primo motivo di ricorso era inammissibile, in quanto volto a sottoporre alla Corte un non consentito riesame del merito della vicenda. Gli altri tre motivi di gravame risultavano infondati, in quanto la Commissione Tributaria Regionale aveva correttamente applicato le norme richiamate dall’Agenzia delle Entrate. Ciò, peraltro, in conformità della giurisprudenza di legittimità e comunitaria, secondo la quale è necessario, affinché sia negata (legittimamente) la detrazione dell’IVA, che l’Amministrazione finanziaria riesca a provare, anche tramite presunzioni gravi, precise e concordanti, che la società cessionaria conosceva, o poteva ragionevolmente conoscere, di partecipare ad una frode fiscale, attuata con l’emissione di fatture relative ad operazioni inesistenti.

In sostanza, dai motivi di ricorso per cassazione, si evince l’assunto dell’Amministrazione finanziaria, secondo il quale la corretta applicazione della citata normativa Iva non prescrive che sia data prova della consapevolezza, da parte del cessionario, dell’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, essendo sufficiente che lo stesso abbia portato in detrazione l’imposta riportata in tali fatture.

Viceversa, nel controricorso della contribuente, si sostiene la necessità della prova (anche presuntiva) sulla consapevolezza, da parte della società cessionaria, delle eventuali irregolarità fiscali o dell’asserita funzione di “cartiere” delle società cedenti. Soltanto con la prova di tali circostanze, infatti, si sarebbe potuto dedurre che la contribuente avesse avuto consapevolezza (o consapevole partecipazione) circa le operazioni soggettivamente inesistenti.

Quest’ultima interpretazione, peraltro, è quella avallata dalla Commissione Tributaria Regionale, nella sentenza impugnata innanzi alla Cassazione, laddove ha affermato un onus probandi, a carico dell’Amministrazione finanziaria, in relazione alla circostanza che “la cessionaria conosceva o poteva ragionevolmente conoscere di partecipare ad una frode fiscale”.

3. La decisione

La Suprema Corte ha motivato il rigetto del ricorso principale richiamando la precedente sentenza n. 8132 dell’11 aprile 2011, secondo la quale: “In  tema  di IVA relativa ad operazioni soggettivamente inesistenti, il committente-cessionario, al quale sia contestata la detrazione  dell’IVA,  versata  in  rivalsa al soggetto, diverso dal cedente-prestatore, che tuttavia ha emesso la  fattura, ha il diritto di detrarre l’imposta soltanto se provi che non sapeva o non poteva sapere di  partecipare ad un’operazione fraudolenta ed in particolare se dimostri almeno una di queste due  circostanze e cioè di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra il cedente ed il fatturante in ordine al bene ceduto oppure, nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata  all’attività professionale svolta in occasione dell’operazione contestata, non sia stato in grado di abbandonare lo stato di ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti collegati all’operazione”. Con tale pronuncia, pertanto, la Cassazione aveva già affermato il principio della “buona fede”, come introdotto dalla Corte di Giustizia UE, sostenendo che “l’imprenditore che abbia adottato tutte le misure che si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l’operazione posta in essere non faccia parte di una frode, deve poter fare affidamento sulla liceità dell’operazione, senza rischiare di perdere il proprio diritto alla deduzione dell’IVA pagata a monte”[5].

In particolare, nella sentenza in commento, il giudice di legittimità ha fondato la sua decisione sulla circostanza che “il giudice di merito ha accertato, in fatto, che la società contribuente non poteva conoscere la supposta qualità di ‘cartiera’ della società cedente, in quanto quest’ultima aveva una struttura – personale, mezzi di trasporto, uffici – che non rendeva conoscibile il carattere fraudolento delle operazioni” (Cass., n. 18009/12). In sostanza, quindi, la Cassazione ha rinviato all’apprezzamento delle risultanze istruttorie compiuto dal giudice di secondo grado.

4. La buona fede e il diritto alla detrazione dell’I.v.a.

La sentenza in esame, dunque, ha precisato che non si può, legittimamente, ritenere fondata una contestazione di asserita consapevolezza, da parte del contribuente, di aver effettuato acquisti utilizzando fatture per operazioni inesistenti, al fine di negare la connessa detrazione d’imposta, se, dall’istruttoria processuale, emergono elementi che, oggettivamente, inducono a ritenere il cedente un’impresa effettiva.

In altre parole, la sussistenza di un’organizzazione aziendale (i.e., “uffici, personale, mezzi di trasporto”) ha determinato un legittimo affidamento, in capo alla società acquirente, circa l’effettività dell’attività imprenditoriale svolta dal fornitore e, conseguentemente, dimostra la buona fede del cessionario.

Nella fattispecie in esame, quindi, la Cassazione ha deciso sulla base dell’apprezzamento delle risultanze istruttorie compiuto dalla Commissione Tributaria Regionale, senza, naturalmente, entrare nuovamente nel merito della vicenda. I motivi di ricorso per Cassazione, idonei a consentire il controllo del giudice di legittimità, infatti, non possono consistere nella censura degli apprezzamenti delle risultanze di fatto compiuti dal giudice delle precedenti fasi di giudizio. Alla Suprema Corte, come noto, non è conferito il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì solo quello di controllare, sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dal giudice del merito. A quest’ultimo è, infatti, riservata l’individuazione delle fonti del proprio convincimento e il compito di esaminare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza[6].

Il Supremo Collegio, dunque, nel caso di specie, ha affermato la legittimità del diritto alla detrazione dell’I.v.a. in applicazione del generale principio di “buona fede”.

La detrazione in questione, come noto, garantisce agli operatori economici il recupero del tributo addebitato, in via di rivalsa, dal cedente o prestatore, consentendo loro di non esserne incisi.

Secondo la giurisprudenza comunitaria, il diritto alla detrazione, disciplinato dagli articoli 17 e seguenti della Direttiva Iva, costituisce parte integrante del meccanismo di tale imposta e, in quanto tale, può essere disconosciuto nel solo caso in cui l’acquirente sia stato consapevole di partecipare, con il proprio acquisto, ad un’operazione fraudolenta[7], non potendo, dunque, essere condizionato al fatto che l’imposta sia stata versata, a monte, dal cedente[8]. La Corte di Giustizia UE è arrivata, perfino, ad affermare che il principio di neutralità dell’I.v.a. impone che il diritto di detrazione dell’acquirente sia, comunque, preservato quando tale operatore, pur conoscendo l’intento criminoso del cedente, non abbia in alcun modo concorso alla perpetrazione della frode, ma abbia semplicemente omesso di denunziarla[9].

L’interpretazione giurisprudenziale della normativa europea, in materia di I.v.a., dunque, connette la perdita del diritto alla detrazione dell’imposta solo alle fattispecie nelle quali il titolare del diritto abbia partecipato coscientemente alla frode, con un coinvolgimento da valutarsi secondo criteri di partecipazione psicologica e materiale al fatto concreto[10].

Con particolare riferimento alle operazioni soggettivamente inesistenti, quindi, in applicazione del generale principio di “buona fede”, il diritto alla detrazione dell’I.v.a. può essere negato solo laddove “il soggetto sapeva o comunque avrebbe dovuto sapere che gli acquisti erano relativi ad una frode IVA”[11].

Tale principio è stato accolto anche dalla giurisprudenza nazionale, di merito e di legittimità. In particolare, la Corte di Cassazione, con numerose pronunce, ha esplicitamente conferito “diritto di cittadinanza”, nel nostro ordinamento, al principio della “buona fede” ai fini della detraibilità dell’I.v.a.[12].

Secondo le indicazioni fornite dalla richiamata giurisprudenza, quindi, la “buona fede” del contribuente accertato, rispetto all’eventuale frode fiscale, è acclarabile mediante taluni fatti-indice, quali l’esibizione di idonea documentazione attestante l’effettuazione dell’operazione contestata, la prova della consegna della merce e del relativo pagamento, la dimostrazione che le condizioni contrattuali, commerciali ed economiche, applicate dal fornitore responsabile della frode, siano analoghe a quelle adottate dai fornitori terzi[13].

5. Il riparto dell’onere probatorio sull’esistenza dell’operazione e della buona fede

Come sopra descritto, la sentenza in commento non affronta, direttamente, il problema del riparto dell’onus probandi in relazione al rilievo di operazioni inesistenti. Tale pronuncia, però, implicitamente, segue l’orientamento di precedenti altre sentenze, secondo le quali l’onere probatorio sulla regolarità delle censurate operazioni, o sulla buona fede del contribuente che rivendica il diritto di detrazione dell’I.v.a., grava su quest’ultimo. Non mancano, però, altre pronunce del Supremo Collegio che, invece, impongono all’Amministrazione finanziaria di provare la falsità dell’operazione, con elementi validi e oggettivi, facendo sorgere, solo in tal caso, il conseguente onere della “prova contraria” in capo al contribuente[14].

Quest’ultimo orientamento giurisprudenziale appare maggiormente conforme ai principi affermati dalla Corte di Giustizia UE[15], in materia di diritto alla detrazione I.v.a. in caso di contestazioni relative all’ utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. La giurisprudenza comunitaria, infatti, come descritto sopra, ha riconosciuto esplicitamente il (pacifico) diritto alla detrazione I.v.a. per gli acquirenti che abbiano agito in “buona fede”, seppur incolpevolmente coinvolti in violazioni poste in essere da terzi.

In altri termini, la consapevolezza dell’acquirente rileva solo se, con l’ordinaria diligenza, poteva comprendere l’illiceità delle operazioni poste in essere da altri soggetti. Ciò in quanto l’estensione della responsabilità per la frode anche nei confronti dei contribuenti che sono stati, inconsapevolmente, coinvolti collide con i principi comunitari di neutralità fiscale e di certezza del diritto, posti a fondamento del sistema applicativo dell’Iva. La Corte di Giustizia ha affermato, infatti, che “il diritto di un soggetto passivo, che effettua simili operazioni, di detrarre l’IVA pagata a monte non può neanche essere compromesso dalla circostanza che, nella catena di cessioni in cui si inscrivono le dette operazioni, senza che tale soggetto passivo lo sappia o possa saperlo, un’altra operazione, precedente o successiva a quella da esso realizzata, sia inficiata da frode all’IVA” (enfasi aggiunta)[16].

Conclusione

Dalla sentenza in commento, si evince il fondamentale principio secondo il quale, a prescindere dal riparto dell’onere probatorio – rispetto al quale, la Cassazione non ha sempre assunto un orientamento univoco – la “buona fede” del cessionario è sempre rilevante. In altri termini, diversamente da quanto sostenuto dall’Amministrazione finanziaria, nella causa in esame, ai fini di una legittima detrazione I.v.a., la Suprema Corte ha conferito decisiva e fondamentale rilevanza al comportamento non “colpevole del contribuente cessionario.

Sentenza n. 18009 del 19 ottobre 2012 (ud 27 settembre 2012) – della Cassazione Civile, Sez. V – Pres. MERONE Antonio – Est. BOTTA Raffaele – Pm. SEPE Ennio Attilio

IMPOSTA VALORE AGGIUNTO (IVA) – Accertamento

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERONE Antonio – Presidente –

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. BOTTA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende per legge;

– ricorrente –

contro

(omissis) S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, viale Parioli 43, presso l’avv. prof. D’AYALA VALVA FRANCESCO, che, unitamente all’avv. Maurizio Leo, la rappresenta e difende, giusta procura speciale per notaio Ernesto Sico del 18 settembre 2012, rep. n. 54132;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia (Milano – Sezione staccata di Brescia), Sez. 66, n. 142/66/07, del 12 novembre 2007, depositata il 26 novembre 2007, non notificata;

Udita la relazione svolta nella Pubblica Udienza del 27 settembre 2012 dal Relatore Cons. Raffaele Botta;

Uditi gli avv.ti Gianna Galluzzo per l’Avvocatura Generale dello Stato e gli avv.ti Francesco D’Ayala Valva e Maurizio Leo per la parte controricorrente e ricorrente incidentale;

Udito il P.M., nella persona del sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La controversia concerne l’impugnazione di un avviso di rettifica ai fini IVA per l’anno 1999 in ragione di supposte operazioni soggettivamente inesistenti che avevano determinato una indebita detrazione d’imposta. La Commissione adita accoglieva parzialmente il ricorso. La Commissione regionale, con la sentenza in epigrafe, accoglieva parzialmente l’appello della società contribuente.

L’amministrazione propone ricorso per cassazione con quattro motivi.

La società contribuente resiste con controricorso, illustrato anche con memoria, proponendo con lo stesso atto anche ricorso incidentale.

MOTIVAZIONE

Con i quattro motivi del ricorso principale, l’amministrazione denuncia vizio di motivazione e violazione di legge in ordine all’ apodittica affermazione di insufficienza degli elementi probatori allegati dall’Ufficio, senza dar conto del relativo esame e senza tener conto del mancato assolvimento da parte contribuente dell’onere probatorio che ad essa incombeva. Il ricorso incidentale è basato su otto motivi formulati in via principale e un motivo formulato in via condizionata: con i primi sette motivi, la società contribuente contesta, sotto vari profili di violazione di legge e vizio di motivazione, il valore attribuito dalla sentenza impugnata alle movimentazioni bancarie dei soci e alla loro riferibilità ad operazioni concernenti la società; con l’ultimo motivo, si censura l’omessa pronuncia sulla domanda formulata in via subordinata di ottenere in riconoscimento dei costi corrispondenti ai maggiori ricavi accertati. Con il motivo condizionato, si lamenta la illegittimità delle sanzioni irrogate reclamando la buona fede della società.

Il ricorso principale è infondato, alla luce del principio affermato da questa Corte secondo cui: “In tema di IVA relativa ad operazioni soggettivamente inesistenti, il committente-cessionario, al quale sia contestata la detrazione dell’IVA, versata in rivalsa al soggetto, diverso dal cedente-prestatore, che tuttavia ha emesso la fattura, ha il diritto di detrarre l’imposta soltanto se provi che non sapeva o non poteva sapere di partecipare ad un’operazione fraudolenta ed in particolare se dimostri almeno una di queste due circostanze e cioè di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra il cedente ed il fatturante in ordine al bene ceduto oppure, nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata all’attività professionale svolta in occasione dell’operazione contestata, non sia stato in grado di abbandonare lo stato di ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti collegati all’operazione” (Cass. n. 8132 del 2011). Nel caso di specie, indipendentemente dalla questione su quale fosse il soggetto cui dovesse essere attribuito l’onere probatorio in proposito, il giudice di merito ha accertato in fatto che la società contribuente non poteva conoscere la supposta qualità di “cartiera” della società cedente, in quanto quest’ultima aveva una struttura – personale, mezzi di trasporto, uffici – che non rendeva conoscibile il carattere fraudolento delle operazioni.

Il ricorso incidentale è infondato, quanto agli otto motivi formulati in via principale, in quanto la sentenza impugnata analiticamente ha valutato le risultanze processuali in ordine alle movimentazioni bancarie e alla riferibilità delle medesime alla società, anche alla luce della ristretta compagine sociale: il giudice d’appello si è mosso, anche per quanto concerne il problema della individuazione dei costi deducibili, nelle linee tracciate in materia da questa Corte, alla cui giurisprudenza egli fa costante riferimento.

Non deve essere, invece, oggetto di esame il motivo formulato in via condizionata in ragione del rigetto del ricorso principale.

Pertanto, i ricorsi vanno rigettati. La reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese della presente fase del giudizio.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Rigetta entrambi i ricorsi, principale e incidentale. Compensa le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 27 settembre 2012.

Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2012


[1] La sentenza in commento è stata pronunciata contestualmente ad altre tre pronunce della Cassazione, nn. 18003/12, 18004/12, 18008/12, sostanzialmente “gemelle” sul diritto alla detrazione I.v.a. in caso di fatture per operazioni inesistenti.

[2] La società contribuente, infatti, fin dal primo grado di giudizio, ha eccepito: la completa estraneità della ricorrente alla eventuale frode fiscale posta in essere dalle società cedenti; l’effettività delle operazioni d’acquisto; il principio di neutralità fiscale ex art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972; il grave difetto di riscontro probatorio, sul coinvolgimento della ricorrente e rispetto l’asserita inesistenza delle altre società cedenti.

[3] La società contribuente, invece, ha impugnato il secondo rilievo (maggiori ricavi non dichiarati), con ricorso incidentale, respinto dalla Suprema Corte in quanto “infondato”, poiché deciso dalla C.T.R. in senso conforme all’orientamento della giurisprudenza di legittimità.

[4] L’Amministrazione finanziaria ha sostenuto che “tali norme non prescrivono quale elemento costitutivo della fattispecie fraudolenta la consapevolezza di partecipare ad una frode fiscale da parte del cessionario – aspetto non decisivo – essendo sufficiente il mero fatto di aver intrattenuto rapporti con una o più società cartiere”.

[5] Cfr. sentenza della Corte di giustizia UE, 12 gennaio 2006, cause riunite C-354/03, C-355/03 e C-484/03, «Optigen, Fulcrum e Bond House».

[6] In tal senso, ex multis, cfr. Cass., 15 dicembre 2012, n. 25322.

[7] Con la citata sentenza del 12 gennaio 2006 (Corte di giustizia UE, 12 gennaio 2006, cause riunite C-354/03, C-355/03 e C-484/03, «Optigen, Fulcrum e Bond House»), la Corte di Giustizia europea ha riconosciuto ad un contribuente inseritosi nella catena di soggetti appositamente organizzati per la realizzazione della frode, il proprio diritto alla detrazione dell’imposta assolta, sulla base del carattere obiettivo delle nozioni di “soggetto passivo” e di “attività economica” contenute nella direttiva 77/388/CEE del 17 maggio 1977.

[8] “E’ irrilevante, ai fini del diritto del soggetto passivo di detrarre l’Iva pagata a monte, stabilire se l’IVA dovuta sulle operazioni di vendita, precedenti o successive, riguardanti i beni interessati, sia stata versata o meno all’Erario” (cfr. ordinanza 3 marzo 2004, causa C-395/02, Transport Service).

[9] Come sottolineato dall’Avvocato Generale, nelle conclusioni depositate in data 14 marzo 2006, nelle cause riunite C-439/04 e C-440/04, «Axel Kittel e Recolta Recycling SPR»: “il comportamento dell’obbligato sleale, che non comunica al fisco l’imbroglio, genera diverse conseguenze, ma mai quella di vanificare una regola fondamentale del regime dell’IVA, ossia quella secondo cui, in ciascuna fase del processo di produzione o di distribuzione, l’onere fiscale si applica sottraendo quello sostenuto negli stadi precedenti”.

[10] La Corte di Giustizia UE, nella citata sentenza “Optigen”, ha affermato che “quando il contribuente ignora di trovarsi calato in un disegno più ampio, inteso all’elusione dell’obbligo fiscale, oppure, pur essendone a conoscenza, si tiene ai margini dell’accordo illecito, il suo diritto a deduzione non viene meno”.

[11] In tal senso, cfr. Corte di Giustizia UE, 27 settembre 2007, Causa C-146/05, “Collèe”; Corte di Giustizia UE, Sezione Terza, 27 settembre 2007, Causa C-409/04, “Teleos”; Corte di Giustizia UE, Sezione Terza, 27 settembre 2007, causa C-184/05, “Twoh International”; Corte di Giustizia UE, 7 dicembre 2010, causa C-285/09; Corte di Giustizia, 21 giugno 2012, cause C/80-11 e C-142/11.

[12] Cfr., oltre la sentenza richiamata nella pronuncia in commento (Cass. n. 8132/2011), Cass. n. 24965/2010, Cass. n. 1364/2011 e Cass. n. 18466/2012.

[13] Cfr., ex multis, C.T.R. di Firenze, sent. n. 96/2009.

[14] Cfr. Cass., n. 18446/2012; Cass., n. 23560/2012; Cass., n. 23074/2012.

[15] Ex multis, da ultimo, cfr. Corte di Giustizia UE del 21 giugno 2012, C- 80/11 e 142/11, “Mahagében”, e Corte di Giustizia UE del 6 settembre 2012, C-324/11, “Toth”.

[16] Cfr. Corte di Giustizia, sent. 12 gennaio 2006, C-354/03, C-355-03 e C-484/03, “Optigen, Fulcrum e Bond House”,cit..