Gettare oggetti dalla finestra – Ordinanza del 16 febbraio 2011 Tribunale di Varese
Ente Giudicante: Tribunale di Varese
Procedimento: Ordinanza del 16 febbraio 2011
Gettare oggetti dalla finestra per impedire l’uso del parcheggio, via libera alla multa che matura in favore dell’avversario
Trib. Varese, sez. I, ord. 16 febbraio 2011, giudice Buffone
FATTO
S. ha acquistato in data 27 luglio 2010, l’abitazione dove è andato a vivere con la madre M. e il marito di questa, G.. Trattasi di immobile sito in … con accesso dalla via … n. .., per il tramite di una servitù prediale di passo.
La libera e serena fruibilità del proprio dominio è stata ostacolata dalla condotta della proprietaria finitima, sig.ra F.F. (di circa settant’anni) la quale ha posto in essere una variegata ed atipica serie di condotte di tipo emulativo orientata ad ostacolare l’esercizio della servitù. La convenuta, in particolare, ha utilizzato la propria finestra sul passaggio per gettare acqua sporca, sassi, gusci di noci, etc.. così imbrattando le autovetture e rendendo difficile se non impossibile l’utilizzo della servitù. E, infatti, onde evitare danni alle auto, i ricorrenti hanno iniziato a parcheggiare altrove le auto, percorrendo la servitù a piedi. La convenuta, onde ostacolare l’altrui diritto, ha pure lasciato crescere senza controllo i rami del proprio oleandro che si protendono sulla via …
Gli informatori sentiti durante il processo, sotto giuramento, hanno confermato i fatti sin qui illustrati, così consegnando al giudice del sommario sufficienti elementi probatori per la decisione.
DIRITTO
In via preliminare vanno ricostruiti i fatti come emersi in corso di lite e va verificata la fondatezza della azione, nella ritenuta sussistenza dei presupposti costitutivi.
1. REINTEGRAZIONE NEL POSSESSO
Il possesso è iniziato con l’acquisto della casa, in data 27 luglio 2010; l’azione è stata depositata il 21 dicembre 2010: il ricorso è dunque ammissibile. Va, però, segnalato che il decorso del termine di decadenza ex art. 1168 c.c. non è rilevabile d’ufficio (Cass. civ., sez. II, sentenza n. 5841 del 16 marzo 2006).
Il diritto reale oggetto di tutela trova ampio riscontro probatorio nel rogito notarile versato in atti e nella sentenza versata in atti: comunque è in tal modo che allo stato si esteriorizza la condotta degli attori. Né sono necessari ulteriori approfondimenti in questa sede. Come anche di recente ha chiarito la Suprema Corte (v. Cass. civ., sez. II, sentenza 3 agosto 2010, n. 18034 in www.tribunale.varese.it/Massimario), occorre distinguere tra possesso utile ai fini dell’usucapione e situazione di fatto tutelabile in sede di azione di reintegrazione, indipendentemente dalla prova che spetti un diritto, da parte di chi è privato della disponibilità del bene. In quest’ultima ipotesi è sufficiente un possesso qualsiasi, anche illegittimo ed abusivo, purché abbia i caratteri esteriori di un diritto reale (Cass. 1 agosto 2007 n. 16974).
Il ricorso all’azione di reintegrazione (piuttosto che a quella di manutenzione) è corretto: lo spoglio presuppone che la condotta del terzo “comprometta in modo giuridicamente apprezzabile l’esercizio del possesso” (Cass. civ., sez. II, sentenza n. 1743 del 28 gennaio 2005) dovendosi dunque adottare un criterio qualitativo e non quantitativo. Nel caso di specie, gli atti molesti della convenuta sono stati talmente offensivi da determinare la interruzione dell’utilizzo della servitù a mezzo delle auto così essendosi non tanto affievolito quanto del tutto compromesso il transito carraio. Peraltro, in un caso simile a quello sub iudice, la Suprema Corte ha espressamente affermato l’ammissibilità dello spoglio (v. Cass. civ., sez. II, sentenza n. 17889 del 25 novembre 2003: integrano la lesione del possesso, tutelabile con l’azione di reintegrazione, non soltanto la privazione del possesso ma anche gli atti che determinino l’ostacolo o l’impedimento al suo libero ed incondizionato esercizio).
Nel merito il ricorso è fondato.
La condotta della convenuta non si pone in contrasto soltanto con le norme generali della convivenza civile ma pure con quelle che regolano il pacifico e sereno godimento della proprietà nei rapporti tra proprietari finitimi, essendo inibito ad ogni confinante di ostacolare o, addirittura, comprimere il godimento dei diritti altrui, in specie quelli reali limitati serventi al pieno potere sul proprio dominio.
Vi è, peraltro, che all’esito dell’istruttoria sommaria sono chiaramente emersi coefficienti probatori univoci nel disegnare uno spoglio suscettibile di reintegrazione: le gravi condotte di “disturbo” della convenuta; l’abbandono, da parte dei ricorrenti, dell’utilizzo del passo carraio (poiché stremati dall’altrui condotta emulativa); il rapporto causale tra le prime e il secondo. La convenuta, in particolare, è stata riconosciuta dagli informatori (sentiti sotto giuramento) nella persona ritratta nelle foto allegate e in quella che, affacciando sulla servitù prediale, pone in essere insulti e variegate altre condotte intollerabili atte a inibire il transito dei veicoli.
L’informatore G.G., all’udienza del 16 febbraio 2010, ha riconosciuto nella signora F.F. quella che possiede una finestra che affaccia su via …., sulla stradina che i ricorrenti usano per entrare in casa: “la conosco perché andando dai signori …, che sono amici, abbiamo avuto il piacere di conoscerla con insulti”. L’informatore ha confermato la tesi dei ricorrenti e, cioè, che la condotta della resistente ha di fatto comportato un vero e proprio spoglio: “i sig. … non possono più entrare in casa con la macchina a causa della signora. Parcheggiano prima e poi vanno a piedi. La signora, nel momento in cui arrivi dalla macchina, si affaccia dalla finestra e butta sassi e acqua a tutte le persone”.
Anche quanto all’oleandro vi è stata conferma probatoria: “ha un oleandro dentro casa ma viene fuori con i rami sulla strada. Questi rami impediscono in parte il passaggio. Sono venuti tante volte anche i Carabinieri ma non hanno risolto niente. Non so perché fa così ma dice che è tutto suo”.
Non può poi essere ignorata la condotta del tutto indifferente della convenuta rispetto alle esigenze dei ricorrenti: questa non solo ha rifiutato la ricezione del plico contenente il ricorso possessorio ma ha pure agito deliberatamente contro le ragioni della parte ricorrente, ponendo in essere comportamenti sorretti da consapevolezza e volontà dell’evento finale. Si è anche resa indifferente all’intervento dei Carabinieri, così manifestando completa resistenza all’Autorità e rivelando di agire come arbitro di sé stessa e degli altri.
Ben rappresentativa della situazione oggetto di lite è la foto allegata dai ricorrenti nell’atto di ricorso, riconosciuta dalla teste, e ritraente la convenuta sporgente dalla finestra, ancora con una tinozza in mano da cui è appena stata versata acqua sulla strada. La foto è stata scattata da un’auto che transita e quindi conferma bene la tesi del comportamento ostile alle ragioni altrui per mero spirito di litigiosità. Stessa foto è stata depositata come scattata dopo la prima udienza: quindi una condotta recidiva che prosegue nel tempo e non si arresta.
Anche il teste/informatore M.M. ha confermato la gravità dei fatti di lesione del diritto altrui da parte della resistente: “confermo che la sig.ra F.F. pone in essere gesti intollerabili: a me, personalmente, mi ha buttato un secchio d’acqua addosso e sassi sulla macchina. L’ha rovinata. Stavo scaricando delle cose per i … e mi ha gettato su acqua bagnandomi tutto. La macchina l’ha colpita e rovinata”.
La domanda di reintegrazione va dunque accolta come da dispositivo e la convenuta va condanna alla rifusione delle spese di lite in favore degli attori; spese che si liquidano come da dispositivo.
2. ATTUAZIONE DEGLI OBBLIGHI EX ART. 614-BIS C.P.C.
La parte ricorrente, tenuto conto delle resistenze della convenuta ad una attuazione della tutela del diritto, ha chiesto munirsi la condanna giudiziale di un provvedimento di coercizione indiretta ex art. 614-bis c.p.c.: Art. 614-bis. Attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare. Con il provvedimento di condanna il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 409. Il giudice determina l’ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile.
L’art. 614-bis c.p.c. è stato introdotto, con decorrenza dal 4 luglio 2009, dall’art. 49 della Legge 18 giugno 2009 n. 69 e inserisce nella trama codicistica di rito le cd. astreintes. Con tale termine si suole fare riferimento alle forme di esecuzione indiretta che utilizzano la tecnica delle misure coercitive, cioè quello specifico ventaglio di strumenti di coartazione della volontà del debitore che si concretano nella minaccia di sanzioni civili o penali, al fine di costringerlo ad adempiere i suoi obblighi. La norma tende a realizzare l’effettività del “giusto processo” che tale non sarebbe ove la pronuncia restasse lettera morta, ineseguita. Ebbene, in tal senso le astreintes mirano a garantire l’esecuzione del comando giurisdizionale, sul presupposto, non opinabile, che il processo esecutivo sia parte integrante del «processo», ai sensi dell’art. 6 CEDU. Occorre verificare se le Astreintes siano applicabili al caso di specie, dovendosi dunque individuare l’esatto perimetro applicativo del contenuto della disposizione: in effetti, è solo grazie alla rubrica che si ricava come le astreintes introdotte facciano riferimento solo agli “obblighi di fare infungibile o di non fare”, in antitesi con il brocardo rubrica non est lex.
Le definizioni sopraccitate vanno, però, esaminate nel loro esatto contenuto semantico.
Per gli obblighi di non fare la tutela è prevista in via generale, prescindendo, cioè, dalla infungibilità. Sono obblighi “di non fare” quelli in cui è dedotta nel rapporto obbligatorio una condotta di tipo omissivo, una prestazione a contenuto negativo. Secondo l’Autorevole Dottrina, in questi casi il debitore “deve astenersi dall’adottare un determinato comportamento o, più semplicemente, non deve fare alcunché”. Ecco allora che, quanto alla condanna avente ad oggetto una inibitoria, come nel caso di specie, la condanna accessoria è configurabile ed ammessa.
La convenuta, quindi, condannata ad astenersi dall’impedire il godimento della servitù da parte degli attori, interrompendo il fatto di gettare dalla finestra sassi e acqua, può essere pure oggetto di monito ex art. 614-bis c.p.c. per l’ipotesi in cui violerà il provvedimento del giudice. In questi casi, essendo la violazione dell’obbligo omissivo a costituire illecito strappo nell’imposizione principale del giudice, la condanna accessoria sarà efficace ad ogni comportamento attivo vietato.
Quanto agli obblighi di fare, secondo la Dottrina, è infungibile sia l’obbligazione assunta intuitu personae sia quella che può essere adempiuta dal solo obbligato. Un obbligo non è, quindi, infungibile quando il suo adempimento dipende dal fatto di un terzo, diverso dal debitore. Ad ogni modo, criterio risolutivo è, quindi, la coercibilità diretta (o non) degli obblighi, tramite l’intervento surrogatorio di un terzo: tanto basta a far scattare o non l’ammissibilità del rimedio ex art. 614-bis c.p.c.
Di ausilio al tema in esame (infungibilità dell’obbligo) può sicuramente risultare, peraltro, la decisione delle Sezioni Unite penali del 5 ottobre 2007 n. 36692, ove il Collegio si è interrogato sull’esatto perimetro applicativo dell’art. 388 c.p. e ciò facendo ha rassegnato talune importanti conclusioni.
L’art. 388 c.p. introduce il delitto di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, quale astreinte ad hocdi natura afflittiva. Entrambe le fattispecie previste dai primi due commi dell’art. 388 cit. hanno per oggetto giuridico l’interesse all’effettività della tutela giurisdizionale (C. cost., n. 77/2007, C. cost., n. 24/2003) e, dunque, lo stesso interesse presidiato dall’art. 614-bis c.p.c. Orbene, secondo le SS.UU., se l’interesse da proteggere è l’effettività della decisione, ciò che conta non è il contegno tout court dell’obbligato ma l’incidenza, in concreto, di tale condotta sulla esecuzione del provvedimento.
Ciò vuol dire, per il Supremo Collegio, che “quando si tratti di obblighi la cui esecuzione coattiva non richieda necessariamente un intervento agevolatore del soggetto obbligato, non v’è ragione di assegnare rilevanza al suo atteggiamento di mera inottemperanza, perché, come s’è detto, non è qui in discussione una mera trasgressione all’ordine del giudice, bensì l’ostacolo all’effettiva possibilità di una sua esecuzione. In questi casi assumono dunque rilevanza penale solo i comportamenti che ostacolino dall’esterno un’attività esecutiva integralmente affidata ad altri. Diversamente deve ritenersi, invece, quando la natura personale delle prestazioni imposte ovvero la natura interdittiva dello stesso provvedimento giudiziale escludano che l’esecuzione possa prescindere dal contributo dell’obbligato. In questi casi infatti l’inadempimento dell’obbligato contraddice di per sé la decisione giudiziale e ne pregiudica l’eseguibilità. Ove si tratti di provvedimento interdittivo (obbligo di non fare), in particolare, la violazione dell’obbligo di astensione priva immediatamente di effettività la decisione giudiziale, che risulta appunto elusa nella sua esecuzione, perché contraddetta oltre che inadempiuta. E ove si tratti di provvedimento prescrittivo di prestazioni personali o comunque di un comportamento agevolatore dell’obbligato, il rifiuto di adempiere non si esaurisce in una mera inottemperanza all’ordine del giudice, ma tende a impedirne o comunque a ostacolarne l’esecuzione, incidendo così ancora sull’interesse all’effettività della giurisdizione tutelato dalla norma incriminatrice”.
Non è difficile intuire come gli enunciati sopra richiamati “vestano” perfettamente gli abiti dell’art. 614-bis c.p.c. ed, allora, a farne scattare il fascio applicativo sarà l’accertata presenza di un provvedimento giudiziale la cui esecuzione non può prescindere dal contributo dell’obbligato.
Ebbene, nel caso di specie, i rami dell’oleandro che si protendono oltre la casa della convenuta e sulla strada, ben potranno essere eliminati, in caso di inerzia della resistente, mediante l’intervento di un terzo, in sede di attuazione della cautela o esecutiva, cosicché è da escludere la infungibilità dell’obbligo. Occorre chiarire se la somma oggetto della condanna (accessoria, futura, condizionata) debba essere riversata in favore della parte ricorrente, atteso il silenzio dell’enunciato letterale. Orbene, quanto alle astreintes, nel sistema francese viene adottata una “condanna-indennizzo”, in cui, per l’appunto, l’importo di denaro oggetto di sanzione è versato in favore del creditore. Nel sistema tedesco, invece, si accede ad un sistema in cui si assiste ad una sorta di condanna-pena (ed, infatti, le somme sono disposte a favore dell’erario). L’art. 140, comma VI, del Cod. del consumo recepisce questo ultimo modello tedesco di astreintes (cd. Geldstrafe) poiché le somme di denaro oggetto di condanna “sono versate all’entrata del bilancio dello Stato” anche se con il precipuo fine di “essere riassegnate (…) per finanziare iniziative a vantaggio dei consumatori”.
Quanto all’art. 614-bis c.p.c., la dottrina ritiene che non dovrebbero esserci dubbi sulla adozione modello francese e questa tesi è senz’altro condivisibile. Depone in tal senso non solo la necessità dell’istanza di parte ma anche la natura individuale dell’azione e la natura giuridica della misura di cui si tratta che, invero, ha contenuto sanzionatorio. Chi ha, poi, dedicato alla norma in esame maggiore spazio ed approfondimento, afferma che «il contenuto complessivo della norma (richiesta di parte, titolo esecutivo) lascia inequivocabilmente intendere l’adesione al modello della condanna – indennizzo in favore del creditore, non già a quello della condanna – pena in favore dell’erario». Nella quantificazione del quantum della condanna accessoria, deve premettersi che l’art. 614-bis c.p.c. introduce, di fatto, una sanzione civile che mira a scoraggiare, prima, e sanzionare, dopo, l’atteggiamento refrattivo del debitore nei confronti dell’adempimento. Ed, infatti, la forza dell’astreinte è quella di rendere, per il debitore, più conveniente l’adempimento anziché l’inadempimento. Va, dunque, esclusa la natura risarcitoria e tanto emerge dalla considerazione che il danno è quantificato senza tenere conto dell’effettiva entità del nocumento eventualmente subendo dal creditore. Certo, il pregiudizio è elemento che concorre a determinare l’oggetto della condanna, il suo ammontare esatto. Come bene segnalano i commentatori, «la misura non è destinata a riparare il pregiudizio subito dal creditore, per il fatto dell’inadempimento, bensì a sanzionare la disobbedienza ad un ordine del giudice». Allora, per la quantificazione della somma intesa a scoraggiare la violazione del provvedimento, è opportuno guardare ai seguenti parametri: il danno subendo dal creditore; il valore della causa; le condizioni soggettive del debitore (per rendere la sanzione efficace in concreto); il contegno processuale delle parti; il tipo di violazione posta in essere. Nel caso di specie, in ordine: il creditore ha perso l’uso della servitù a mezzo di auto, con evidente danno permanente; la resistente si è del tutto disinteressata della lite, dei Carabinieri e del processo; la violazione posta in essere è gravissima.
Si tenga conto che, proprio violazioni quali quella oggetto di lite, costituiscono il triste argomento di fatti di cronaca, in cui, confinanti giunti all’esasperazione, hanno poi violato precetti imperativi dell’Ordinamento nella ritenuta assenza di tutela effettiva e seria. Va, dunque, salvaguardata la serena convivenza civile e chi tale interesse pubblico apertamente viola, agendo con mala fede e dolo, va severamente sanzionato. Tenuto conto degli indici sopra elencati, del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva alla condanna, va quantificata in Euro 200,00. Ogni volta che la resistente non rispetterà il provvedimento interdittivo, la parte attrice maturerà il diritto ad un credito pari ad Euro 200,00. Ogni violazione costituisce infrazione all’obbligo giudizialmente imposto e, pertanto, per ogni violazione matura un credito separato di Euro 200,00 cumulabile con quelli già maturati. Questo giudice non ignora che l’eventuale iniquità della misura coercitiva impedirebbe l’applicazione dell’astreinte. Ma nel caso di specie non ricorre la clausola escludente della manifesta iniquità. E’ iniquo ciò che è contrario all’equità e, dunque, sotto tale versante, si richiede al giudice di verificare tutte le circostanze del caso affinché l’astreinte non diventi strumento che possa svilire la persona dell’obbligato. Coerentemente con questa impostazione, personalistica, si afferma che l’iniquità manifesta della misura può risultare dalla valutazione ex ante di “inidoneità della condanna al pagamento di qualsiasi somma di denaro a compulsare il debitore, in guisa della natura della prestazione oggetto della condanna principale ovvero delle condizioni patrimoniali in cui versa l’obbligato”.
Circostanza estranea all’odierno giudizio.
3. LITE TEMERARIA EX ART. 96 C.P.C.
Muovendo dalle acute osservazioni di Cass. pen., sez. VI, sentenza 11 febbraio 2011 n. 5300, non c’è dubbio che già il solo fatto di dovere sostenere un giudizio civile, affrontandone comunque i costi notoriamente non indifferenti e i disagi conseguenti in termini di durata della pendenza e incertezza di soluzione, costituisca un obiettivo pregiudizio. Il sistema giudiziario prevede, però, in sé rimedi specifici nei confronti dell’azione “temeraria”, sia nel settore civile che in quello penale, rimedi che sono attivabili d’ufficio dal magistrato, oltre a potere essere sollecitati dal convenuto. E’, dunque, possibile trovare una risposta efficace dall’applicazione attenta e coerente delle norme che lo stesso Legislatore ha posto a contrasto dell’azione strumentale e temeraria. Quanto, in particolare, al processo civile, il recente intervento del Legislatore della Legge 69/2009 – con l’inserimento di un ultimo comma dell’art. 96 c.p.c. che specificamente prevede, nel caso di condanna alle spese della parte soccombente, la possibilità di condanna, anche d’ufficio, al pagamento a favore della controparte di somma equitativamente determinata – indica un ulteriore e specifico rimedio, “la cui attivazione dipende solo dall’attenzione, comprensione e diligenza del giudice, eventualmente opportunamente sollecitato dalla parte interessata”.
In effetti, l’abuso del processo causa un danno indiretto all’erario (per l’allungamento del tempo generale nella trattazione dei processi e, di conseguenza, l’insorgenza dell’obbligo al versamento dell’indennizzo ex lege 89/2001) e un danno diretto al litigante (per il ritardo nell’accertamento della verità) e va dunque contrastato (v. Trib. Varese, sez. Luino, ord. 23 gennaio 2010 in Foro Italiano, 2010, 7–8, I, 2229). In tale contesto, si comprende perché il Legislatore del 2009 (legge n. 69) abbia introdotto un danno tipicamente punitivo nell’art. 96 comma III c.p.c. al fine di scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia (v. Trib. di Piacenza, sez. civ., sentenza 22 novembre 2010, est. Morlini in Guida al dir., 2011, 3). Infatti, la norma introdotta dalla Legge 18 giugno 2009 n. 69 nel terzo comma dell’art. 96 c.p.c. non ha natura meramente risarcitoria ma “sanzionatoria” (Tribunale di Piacenza, sez. civile, sentenza 7 dicembre 2010, est. Coderoni) come la prevalente giurisprudenza di merito ha ritenuto (v. anche Trib. Verona, ord. 1 ottobre 2010; Trib. Verona, ord. 1 luglio 2010; Trib. Verona, sez. III civ., sentenza 20 settembre 2010) là dove ha affermato che essa introduce nell’ordinamento una forma di danno punitivo per scoraggiare l’abuso del processo (Tribunale di Roma, sez. XI civile, sentenza 11 gennaio 2010 in Giur. Merito, 2010, 9) e preservare la funzionalità del sistema giustizia (in questi termini, Trib. Prato 6 novembre 2009, Trib. Milano 29 agosto 2009), traducendosi, dunque, in “una sanzione d’ufficio” (Tribunale di Roma, sez. distaccata di Ostia, sentenza 9 dicembre 2010). Nella medesima direttrice ermeneutica si colloca la giurisprudenza di questo Tribunale (v. Trib. Varese, sez. I civ., sentenza 30 ottobre 2009 in Giur. di Merito, 2010, 2, 431 e in Resp. civ., 2010, 387 ss.; Trib. Varese, sez. dist. Luino, ordinanza 23 gennaio 2010 cit.) ed anche gli arresti di merito più recenti (v. Tribunale di Rovigo, sez. distaccata di Adria, sentenza 7 dicembre 2010, est. Martinelli) dove il nuovo istituto (art. 96, III c.p.c.) è stato qualificato in termini di «sanzione di natura pubblicistica, perché mira a punire il comportamento processuale della parte che viola il principio costituzionale della durata del giusto processo (poiché incide non solo sulla durata del singolo processo ma anche su tutti gli altri a catena)». Il problema, però, che investe l’applicazione della norma ex art. 96, comma III, c.p.c. nel caso di specie sta nel fatto che la convenuta è rimasta contumace. Come noto, la contumacia è espressione del diritto di difesa ex art. 24 Cost. e come tale non può mai comportare una ficta confessio.
Ciò comporta che il giudizio debba essere ritualmente istruito e, non potendosi nemmeno applicare il principio di non contestazione (v. art. 115 c.p.c.), colui che agisce deve anche fornire prova dei fatti costitutivi della propria pretesa. Ciò sembrerebbe poter condurre all’affermazione del principio generale per cui, comunque, una responsabilità processuale per aver resistito alla domanda (seppur con contegno contumace) si può affermare.
A ben vedere una conclusione siffatta non è condivisibile in quanto la “sanzione”, per sua natura, richiede un comportamento “attivo”, vuoi proponendo il giudizio, vuoi resistendo al giudizio, comportamento che deve essere “endoprocessuale”, nel senso di essere stato posto in essere da un soggetto che ha assunto la veste di “parte” del procedimento. Nelle pronunce di Cassazione si rintraccia almeno un precedente conforme. Nella parte motiva della sentenza Cass. civ., sez. III, sentenza n. 3967 del 21 aprile 1999, la Suprema Corte testualmente afferma: “Nella specie, essendo la società I. rimasta contumace in primo grado, era di tutta evidenza che la richiesta di condanna della stessa ai sensi dell’art. 96 c.p.c. non poteva che riferirsi al giudizio di appello” (nel caso di specie, la società contumace in primo grado si era costituita in appello e quivi contro di lei era stata proposta istanza ex art. 96 c.p.c.). La domanda ex art. 96 c.p.c. va dunque rigettata.
P.Q.M.
letti ed applicati gli artt. 703 e 669-bis, 614-bis . c.p.c., 1168 c.c.
ACCOGLIE
il ricorso presentato dalla parte ricorrente, per le causali di cui in parte motiva, nell’accertata sussistenza dello spoglio da parte della resistente F.F. come emerso all’esito degli accertamenti istruttori.
ORDINA
a F.F. residente in … alla via …, di cessare immediatamente le condotte descritte in parte motiva, di turbativa, molestia e spoglio dell’altrui diritto e le ordina immediatamente, per l’effetto, di non impedire il transito delle auto dei ricorrenti per raggiungere il loro immobile sito in …. con accesso dalla via … n. .., per il tramite della citata servitù prediale di passo.
FISSA
l’importo di Euro 200,00 ex art. 614-bis c.p.c., quale somma che F.F. sarà tenuta a versare in favore della parte attrice per ogni violazione del provvedimento interdittivo e, dunque, per ogni volta che violerà la condanna ad astenersi dall’ostacolare l’esercizio della servitù, mediante il gettare sui passanti acqua, pietre o altri beni mobili. La condanna accessoria è efficace dalla notifica dell’odierno provvedimento all’obbligato.
AVVISA
il destinatario della misura coercitiva che il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza.
ORDINA
a F.F., residente in … alla via …., di provvedere immediatamente al taglio dei rami dell’albero di oleandro che incidono sull’effettiva ampiezza della servitù andando ad ostacolare l’utilizzo della servitù. La avvisa che in caso di inerzia o omissione, la parte ricorrente avrà diritto ad ottenere il taglio dei rami a sue spese e con aggravio dei costi.
CONDANNA
la parte resistente alle spese del giudizio che
LIQUIDA
come segue, ai sensi dell’art. 91 c.p.c.: spese 93,50, diritti 1.305,00, onorari 1.295,00. Vanno aggiunti il rimborso forfetario ex art. 14 D.M. 8 aprile 2004 n. 127, il rimborso dell’Iva e del Cpa giusta l’art. 11 legge 20 settembre 1980, n. 576.
MANDA alla cancelleria per i provvedimenti di competenza.
Varese lì 16 febbraio 2011
Il giudice dott. Giuseppe Buffone