Giurisprudenza

Attenzione: l’utilizzo di false e/o gonfiate schede carburante è reato – Sentenza n. 912 del 13 gennaio 2012

Ente Giudicante: Corte di Cassazione
Procedimento: Sentenza n. 912 del 13 gennaio 2012

Attenzione: l’utilizzo di false e/o gonfiate schede carburante è reato

La terza sezione penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 912 depositata in data 13/01/2012 ha stabilito che l’utilizzo di schede carburante false da parte del contribuente per fruire di maggiori deduzioni al fine delle imposte sui redditi e di detrazioni dell’IVA si configura come “dichiarazione fraudolenta” e pertanto è penalmente perseguibile. Il reato di utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti al fine di evadere le imposte prevede infatti la reclusione da 18 mesi a 6 anni.

I Giudici della Suprema Corte hanno così reso definitiva la condanna di un 49enne di Reggio Calabria che aveva dichiarato nella scheda carburante delle auto aziendali un consumo di 1,73 chilometri per litro di gasolio mentre la casa costruttrice aveva dichiarato un consumo di 15 chilometri per litro di gasolio. Ma non basta. Il fatto che le schede carburante fossero false era evidente anche perché i consumi erano stati indicati in giorni in cui il distributore era chiuso e non aveva un self service.

Nel respingere la tesi del manager calabrese i Giudici di Piazza Cavour hanno sottolineato come la condotta del medesimo possa essere paragonata a quella che si tiene in caso di uso di fatture false. È stato quindi applicato l’articolo 2 del DLgs 74 del 2000 che punisce per dichiarazione fraudolenta (da un anno e sei mesi a sei anni di reclusione) il contribuente che evade le imposte avvalendosi di fatture fatte a fronte di operazioni inesistenti. Dunque la terza sezione penale ha chiarito che «ad avviso dei giudici del gravame gli accertamenti avevano permesso di constatare che gran parte della documentazione utilizzata per giustificare l’esistenza di costi portati in deduzione e relativi ad acquisto di carburanti era risultata falsa».

A tal proposito si ricorda che la normativa prevede una serie di adempimenti ai fini dell’utilizzo di tali schede carburante, tra cui l’obbligo dell’addetto alla distribuzione di carburante di indicare in detta scheda, all’atto di ogni rifornimento, con firma di convalida, da data e l’ammontare del corrispettivo al lordo dell’IVA, nonché, anche a mezzo di apposito timbro, la denominazione o la ragione sociale dell’esercente l’impianto di distribuzione e l’ubicazione dell’impianto stesso; inoltre l’intestatario del mezzo di trasporto utilizzato nell’esercizio d’impresa deve annotare sulla scheda il numero dei chilometri rilevabile, alla fine o del mese o del trimestre, dall’apposito dispositivo presente nel veicolo.

La mancanza dei predetti requisiti, oppure la non veridicità delle informazioni (per esempio l’acquisto di un quantitativo di carburante sproporzionato rispetto ai normali consumi del veicolo) o delle firme riportate sulla scheda carburante possono pertanto configurare l’ipotesi di “dichiarazione fraudolenta” e i conseguenti riflessi sul profilo penale di cui sopra.

Commento a cura dell’avv.

Delitti in materia di dichiarazione

Art. 2. Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti

1. E’ punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi passivi fittizi.

2. Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria.

3. Se l’ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a euro 154.937,07, si applica la reclusione da sei mesi a due anni.

Art. 3. Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici

1. Fuori dei casi previsti dall’articolo 2, è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, sulla base di una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie e avvalendosi di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l’accertamento, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi, quando, congiuntamente:

a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a lire centocinquanta milioni;

b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al cinque per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a lire tre miliardi.

A conclusioni analoghe deve pervenirsi, infine, per quanto attiene al terzo motivo di ricorso.

La doglianza è infatti espressa in modo del tutto generico, essendosi il ricorrente limitato a sostenere l’inosservanza, da parte dei giudici del gravame, dei criteri dettati dall’articolo 133 C.P. e la mancata considerazione del suo stato di incensuratezza, senza ulteriore specificazione.

Contrariamente a quanto rilevato, tuttavia, la Corte d’Appello ha valutato adeguatamente la congruità della pena inflitta, che il primo giudice aveva irrogato tenendo conto della mancanza di precedenti penali, di ulteriori iscrizioni e della obiettiva rilevanza del fatto.

Tali argomentazioni risultano del tutto sufficienti a giustificare il corretto esercizio del potere discrezionale di determinazione della pena e dei criteri di valutazione fissati dall’articolo 133 C.P.. non essendo richiesto al giudice di procedere ad una analitica valutazione di ogni singolo elemento esaminato, ben potendo assolvere adeguatamente all’obbligo di motivazione limitandosi anche ad indicarne solo alcuni o quello ritenuto prevalente (v. Sez. II n. 12749, 26 marzo 2008).

Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità – non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186) – consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 1.000.00 in favore della Cassa delle ammende.